La politica economica continua ad essere ancorata a vecchie ricette i cui pilastri sono l’austerità fiscale e la flessibilità del lavoro. Non solo si riducono dignità e diritti sociali del lavoro, ma si attua con pervicacia la svalutazione salariale che Commissione Europea e Bce impongono ai paesi europei sulla base della fallace idea che tutti debbano replicare, ad oltre quindici anni di distanza, il modello mercantile germanico trainato dalle esportazioni, aggravando gli squilibri commerciali dentro l’Eurozona che sono con-causa della attuale crisi.
Questa strategia, se aumenta la competitività di costo di breve periodo sui mercati esteri, produce la contrazione dei mercati interni. La compressione dei salari reali al di sotto della già debole crescita della produttività del lavoro mira a ridurre ancor più la quota del lavoro sul reddito e favorisce i profitti che però per carenza di domanda interna non vengono investiti per allargare la capacità produttiva, ma riversati nell’economia del debito alla ricerca di rendimenti speculativi. Gli animal spirits imprenditoriali di Keynes sono sempre più miopi e si trasformano in rentiers.

L’Italia richiede certamente riforme di struttura, ma certo non quelle imposte dal pensiero ormai ordo-liberista che questa Europa germanica del rigore senza crescita ha fatto proprio con la crisi, contribuendo ad aggravarla. Queste si traducono sempre nella ricetta più privatizzazioni e più flessibilità, come se la competitività del paese fosse un problema risolvibile con meno regole e meno Stato, e più mercato. Il Jobs Act non muta questo quadro, anzi attua una politica del lavoro che mira alla stagnazione dei salari nominali ed alla deflazione dei salari reali. Null’altro, il resto è solo rumore di fondo: gli outsider saranno sempre più esclusi e gli insider si trasformeranno in outsider. Non vi è traccia di alcuna politica industriale e dell’innovazione per la quale vi sarebbe necessità di investire risorse pubbliche significative. Recuperare una prospettiva di crescita di medio-lungo periodo richiede azioni integrate di politica economica sui sistemi industriali ed innovativi, per la centralità del lavoro e delle dinamiche retributive. Non mancano certo proposte per attivare un meccanismo virtuoso che inneschi e sostenga la crescita della produttività e delle retribuzioni. Questa politica consentirebbe di uscire dalla trappola ormai ventennale della stagnazione dell’economia italiana.
Anzitutto, occorre una politica industriale pubblica per i settori strategici, sia quelli tradizionali e maturi, che per quelli nuovi ed innovativi. La determinazione della politica industriale implica decidere come e dove collocare la manifattura italiana nel mercato globale in termini di contenuto tecnologico, tipologie di produzioni, soddisfacimento della domanda; inoltre quali cambiamenti strutturali realizzare nel sistema economico, non solo in termini di crescita quantitativa della domanda, ma cambiamenti nella sua composizione e direzione di sviluppo. È noto che l’innovazione di prodotto ha un ampio effetto positivo sull’occupazione; lo stesso effetto non si presenta invece per l’innovazione di processo e per quella organizzativa. Tuttavia, l’innovazione di processo ed organizzativa ha un impatto forte sulle performance economiche delle imprese e sull’innovazione di prodotto stessa. L’Italia è in grave ritardo per innescare l’innovazione sia tecnologica che organizzativa in modo sinergico, focalizzata sui cambiamenti nell’organizzazione del lavoro a basata anche su modelli di partecipazione diretta ed indiretta dei lavoratori, nella manifattura e nei servizi. Un governo lungimirante e concreto che rifugge dai reiterati annunci dovrebbe sostenere l’innovazione organizzativa volta ad accrescere la partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali delle imprese, accrescendo sia le responsabilità che l’autonomia dei livelli inferiori e riducendo i livelli gerarchici, incentivando pratiche di organizzazione del lavoro che favoriscono lo sviluppo e la crescita delle competenze dei lavoratori, percorsi di formazione ed accrescimento dei contenuti dell’attività lavorativa.
Non vi è dubbio che l’obiettivo da perseguire attraverso la contrattazione sia macroeconomico, individuato nella crescita della produttività e nel recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale; è il sistema nel suo complesso che deve intraprendere un circolo virtuoso. Ciò richiede due pilastri che ripristino le relazioni industriali come strumento di regolazione del mercato del lavoro e di redistribuzione del reddito: il contratto nazionale ed il contratto decentrato.

Nell’ambito del sistema contrattuale su due livelli, quello centrale (nazionale e di settore) e quello decentrato (aziendale e territoriale), occorre anzitutto rafforzare il primo. La contrattazione nazionale e di settore non deve rinunciare a preservare il potere d’acquisto del salario, con meccanismi di tutela del salario rispetto alle dinamiche dei prezzi. Inoltre, la crescita contrattata dei salari non può essere considerata componente residuale che nel tempo si annulla per lasciare sempre più spazio ad una ipotetica crescita a livello decentrato lasciata alla discrezione delle imprese.

Il coordinamento delle politiche europee del lavoro dovrebbe perseguire la regola d’oro delle retribuzioni per sostenere una crescita trainata dalla domanda interna piuttosto che dalle esportazioni. In caso contrario, i processi di consolidamento fiscale continueranno a deprimere la domanda aggregata ed il mercato interno europeo e ad incrementare la disoccupazione, rendendo sempre più debole la dinamica salariale ed aggravando il circolo vizioso con la stagnazione della produttività.
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