Renz ha 36 anni, è un senzatetto (è lui stesso a definirsi tale) originario de La Réunion ed è una delle figure di riferimento dell’occupazione più improbabile e innovativa che sia capitata di recente in Francia: la Casa del popolo dei gilet gialli di Saint-Nazaire, Bretagna, ormai giunta al quarto mese di esistenza. Renz indossa un gilet giallo consumato dall’uso, sul quale ha scritto On en a gros, traducibile come «ne abbiamo abbastanza», con una grande “a” cerchiata di anarchia nel mezzo, ed elenca gli impegni: «Contabilità, trasporti per l’assemblea delle assemblee ad aprile, poi c’è il concerto e bisogna fare la spesa… ah, poi c’è la sala computer che è ferma a metà» dell’opera.

In un appello video diffuso nelle prime settimane del movimento dei gilet gli occupanti di Saint-Nazaire hanno spiegato: «All’inizio del XX secolo gli operai rinforzavano la loro solidarietà nelle camere del lavoro; nel ’36 e nel ’68 le fabbriche in sciopero erano il cuore della lotta. Le nostre Case del popolo s’iscrivono direttamente in questa continuità». La continuità, cioè, tra lotte operaie e gilet gialli. E dove ricercarla se non in questa piccola cittadina bretone sulla costa oceanica a un’ora di macchina da Nantes, dove la vita ruota attorno ai cantieri navali e al loro indotto?

ALL’INGRESSO dell’ex-prefettura riconvertita in base organizzativa, il bianconero della bandiera bretone si sovrappone al giallo fluorescente dei gilet. «Vogliamo vivere, non sopravvivere», recita uno striscione appeso sulla porta. Una dozzina di stanze permettono agli attivisti di – appunto – vivere all’interno dell’edificio. C’è una cucina, una sala concerti, un atelier di falegnameria, una palestra popolare. Ma come dice Renz,«la Casa del popolo, non sono i muri, ma le persone che ci vivono». E sono persone di provenienze talmente diverse che solo un movimento come i gilet gialli ha potuto far conoscere e militare assieme.

Linette, che va per i sessanta, è una saint-nazairina tipica: quattro figli, vedova di un marito operaio e una vita intera spesa attorno ai cantieri. Ha trovato il coraggio di varcare la soglia dello squat per curiosità, è alla sua prima esperienza politica. Vive con 800 euro al mese, ma non si lamenta – «riesco a fare tutto quello di cui ho bisogno», dice. «Quando la gente mi diceva che non arrivava a fine mese, credevo fossero dei buoni a nulla», ma grazie ai gilet gialli, «ora ho capito che non è colpa loro».

Distante anni luce dalla biografia operaia e bretone di Linette, Laurence, 32 anni, è originaria della banlieue Parigina, ed è giunta alla Casa del popolo dopo un lungo peregrinare tra il precariato parigino e le campagne piemontesi. Figlia di immigrati siriani, ha un passato problematico con la droga ed è stata folgorata dai gilet gialli che – dice – sono riusciti «a creare uno spazio in cui si discute davvero con tutti». Anche con elettori del Front National: «Molto spesso, sono persone che hanno subito delle grandi ingiustizie», che scelgono i «bersagli sbagliati» per le «ragioni giuste».

QUESTA TRASVERSALITÀ del movimento dei gilet gialli ha permesso la fioritura di esperienze come quella di Saint-Nazaire, o incoraggiato militanti dei quartieri popolari come il Comitato verità e giustizia per Adama Traoré a partecipare alla protesta. Allo stesso tempo, ha anche legittimato la presenza di elementi di estrema destra.

Non deve dunque stupire il fatto che anche alla Casa del popolo, in cui sono coinvolte un centinaio di persone in tutto tra occupanti e attivisti, convivono aspirazioni differenti. Per Christian, 65 anni, operaio dei cantieri navali in pensione, si tratta soprattutto di mettere fine al ‘regno’ di Macron, «novello Luigi XIV». Secondo Christian, il movimento «non ha niente a che vedere» con le lotte degli anni 60 e 70, quando Saint-Nazaire era uno dei punti caldi della rivolta operaia.

Melvin, 19 anni e il viso segnato dall’acne, la vede in tutt’altro modo. Figlio di operai dei cantieri, egli stesso vi ha lavorato per qualche tempo. Ha scoperto la politica grazie ai gilet gialli: «Ho sempre pensato che fosse roba che non facesse per gente come me…». Invece, alla Casa del popolo, «quando non capisco una roba di politica, chiedo ad altri che me la spieghino, e spesso e volentieri pure loro sono operai… Ho capito che basta interessarsi», dice.

Per lui, si tratta di qualcosa di più che il mandato di Macron. È in gioco una combattività operaia mai sopita, e tuttavia mai sperimentata personalmente. «Quando sono stato in piazza coi gilet gialli la prima volta, il 17 novembre – racconta – ho sentito aria di famiglia, c’erano persone che non vedevo da quando ero bambino». Amici dei genitori, parenti: quel pianeta dei cantieri e del porto attorno al quale ruota la città.

Vicino a una gigantografia di un didietro, sulle cui chiappe è scritto: «1789-2019 Sans culottes», un gruppo di persone di una certa età si sta dando da fare con salsicce e crêpes: tra poco incomincia un concerto. Qualche metro più in là, dei giovani gilet gialli stanno cercando le maschere antigas: c’è da maneggiare – con estrema cura – una tanica piena di escrementi, materia prima da versare nelle cacatov, bombe molotov senza petrolio e ad alto tasso d’olezzo, già note alla polizia venezuelana.

IL CARATTERE INCLUSIVO della Casa del popolo sfida le etichette. «La Casa del popolo non è un concetto definito – chiarisce Renz – ognuno ne ha un’idea diversa, e nessuno vuole imporre la propria. È un luogo che serve per organizzare delle azioni, ma anche per creare un legame sociale tra categorie diverse della popolazione».

Categorie diverse, che pure condividono importanti rivendicazioni: giustizia fiscale, ridistribuzione della ricchezza, transizione ecologica. La lista è lunga, ed elencata all’ingresso su di un foglio lungo tre metri. Che si apre con un punto: «Dimissioni di Macron», e si chiude con uno slogan: «Applicazione nei fatti del nostro motto: ‘libertà, uguaglianza, fratellanza’». Chissà che, scemata la stagione dei gilet gialli, la prossima non sia all’insegna delle Case del popolo.