Andare a visitare gli studi degli artisti era un’usanza abbastanza comune per i turisti stranieri che si trovavano a Roma fra la metà dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo; la città offriva infatti solo poche gallerie d’arte e scarse opportunità di esporre. Non stupisce, quindi, trovare indicati nei vari Baedeker del tempo i luoghi dove vivevano e lavoravano pittori e scultori all’epoca molto noti, come lo studio di Moses Jacob Ezekiel alle Terme di Diocleziano. Qui l’artista riceveva sia ospiti illustri e committenti, sia turisti sconosciuti che venivano a rendere omaggio allo scultore dandy da tanti anni residente a Roma. Oltre a quello di Ezekiel erano anche indicati lo studio del pittore e illustratore Elihu Vedder a via Capo le Case 68 e quello del «prominent american sculptor R. S. Greenough at Piazza San Bernardino 109 and Franklin Simmons at Via San Nicola da Tolentino 73». Le indicazioni non sono però del tutto esatte perché, in realtà, Piazza San Bernardino è Piazza San Bernardo, Vedder abitava a via Capo le Case e dipingeva in uno studio a via Flaminia e il numero di Via San Nicola da Tolentino era il 72.
Proprio a questo indirizzo, in un palazzo attualmente di proprietà dell’ANIA, caratterizzato dalle grandi finestre tipiche degli ateliers, hanno avuto il loro studio anche altri artisti oltre a Simmons. Tutti loro, noti e meno noti, hanno contribuito così a formare un piccolo luogo di ritrovo semi-bohémien in quella zona, tra la scalinata di Piazza di Spagna e Piazza Barberini, che allora era conosciuta come «il ghetto degli americani» per il gran numero di pittori e soprattutto scultori d’oltre Oceano che si potevano incontrare nei vicoli a ridosso della villa Ludovisi, proprio negli anni in cui quei luoghi mutavano di aspetto in seguito alla lottizzazione dei terreni del Principe Boncompagni Ludovisi.
Un palazzo fra i «ritratti» di Ugo Ojetti
Ugo Ojetti, nel suo Ritratti d’artisti italiani, parlando del bolognese Mario de Maria, racconta che proprio nel palazzo di via San Nicola da Tolentino 72, nell’appartamento di un pittore sconosciuto, nel 1886 venne ospitata la prima esposizione di «quella società chiusa e gelosa che si chiamò In Arte Libertas» fondata qualche anno prima da Nino Costa e Giulio Aristide Sartorio.
Il più conosciuto fra gli artisti che vi transitarono è senz’altro Augustus Saint-Gaudens che, tra il 1871 e il 1875, divise i locali al primo piano, di fronte alla facciata barocca della chiesa voluta a metà Seicento da Camillo Pamphili, con lo scultore portoghese Antonio Soares dos Reis: «a big sheet hung across the studio separating us… no breath of quarrel ever came between us», ricorda l’americano.
Saint-Gaudens ha fatto parte della prima generazione di artisti d’oltre Oceano che arrivò in Europa, inizialmente a Parigi, per aggiornarsi sulle nuove tendenze artistiche della seconda metà dell’Ottocento. Le esperienze europee consentirono a Saint-Gaudens di diventare uno dei massimi rappresentanti della scultura americana a cavallo fra i due secoli, capace di modificarne il corso dal consolidato gusto neoclassico verso un più aggiornato stile naturalistico. Irlandese di nascita, emigrò da bambino a New York dove iniziò presto a specializzarsi come intagliatore di camei, pratica che perfezionò a Parigi dove visse fino allo scoppio della guerra franco-prussiana, quando, come molti altri americani, la abbandonò per dirigersi a Roma.
Proprio a questi iniziali anni del soggiorno romano appartiene la sua prima opera a figura intera, che inevitabilmente risente, anche se in maniera ancora sommaria, delle sue prime esperienze italiane, non ancora però filtrate da una personale consapevolezza artistica. L’opera in questione, Hiawatha, ispirata a un poema di Henry Wadsworth Longfellow del 1855, fu terminata, come è ricordato dallo stesso Saint-Gaudens nel suo libro di memorie, grazie all’intervento del reverendo Robert J. Nevin, allora impegnato a far costruire la poco distante chiesa anglicana di San Paolo entro le mura, punto di riferimento della comunità anglo-americana a Roma. Questi presentò infatti Saint-Gaudens a un benefattore americano, Montgomery Gibbs, che a Roma si era stabilito in un albergo proprio a via San Nicola da Tolentino, il Costanzi, e che anticipò allo scultore i soldi necessari e lo sostenne commissionandogli diverse altre opere. Negli stessi anni anche il coinquilino di Saint-Gaudens realizzò la sua prima scultura a figura intera, l’Esiliato, forse troppo simile e di certo meno ispirata rispetto a quella del più noto artista americano, che così descrive l’opera dell’amico: «this figure with its melancholy was in complete accord with Soares’ own nature, and a beautiful work he made».
Un’elegante targa, differente dalle molte che si trovano sui palazzi romani che normalmente si limitano a scritte evocative, ricorda il soggiorno di Saint-Gaudens. Un rettangolo simile a quelli che caratterizzano la parte inferiore del palazzo, forse posto leggermente troppo in alto per essere apprezzato al meglio, è trasformato infatti in un pregiato altorilievo grazie a due figure all’antica, verosimilmente Minerva e Apollo, che incorniciano la dedica allo scultore.
Di sicuro molto meno nota, ma non meno affascinante e ben più tragica è la vicenda umana e artistica di Dora Ohlfsen-Bagge, che visse e lavorò nello stesso palazzo (forse nello stesso studio) dal 1902 fino alla sua morte nel 1948.
Bohémienne con lo stiacciato
La vita della Ohlfsen meriterebbe di essere raccontata più dettagliatamente; su di lei, molto conosciuta e apprezzata in vita, è calato un velo d’ombra a farne dimenticare la memoria. Secondo alcuni addirittura spia americana nella Russia pre-rivoluzionaria, fu certamente una crocerossina nel corso della prima guerra mondiale. Nata in Australia nel 1869, si trasferì a Berlino nel 1892 per studiare pianoforte, viaggiò in Europa e in Russia frequentando l’aristocrazia internazionale e, nel 1902, insieme alla sua compagna di vita, la modella Hélène de Kuegelgen, arrivò a Roma. Qui, conducendo una vita decisamente bohémienne, si specializzò nella scultura di medaglie in bronzo, molto di moda in quegli anni, usando la tecnica dello stiacciato con cui univa l’estrema accuratezza dei dettagli a un’atmosfera elegantemente déco.
Del 1916 è la sua opera più nota: l’Anzac medal, il medaglione commemorativo delle truppe australiane e neozelandesi che avevano combattuto nella campagna di Gallipoli l’anno precedente. La battaglia, che rappresentò una delle più grandi sconfitte del Regno Unito, fu un avvenimento che segnò profondamente la coscienza delle due nazioni che per la prima volta partecipavano a un evento bellico. La medaglia, che doveva essere la prima di una serie di quattro, una delle quali dedicata anche ai soldati italiani, raffigura idealmente l’Australia mentre incorona d’alloro un soldato caduto in guerra.
Ohlfsen stessa ha così descritto la sua opera: «I have made Australia and her son very young, representing as they do the youngest country and the youngest army». La modella era una giovane ragazza di ventun’anni che viveva a Roma, Alexandra Simpson, «one of the beauties of the English colony at Rome», anche lei crocerossina sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale, che la Ohlfsen ritrasse successivamente in un disegno a carboncino esaltandone «il fascino pensieroso degli occhi color nocciola».
Oltre alla principessa Maria Rospigliosi, Herbert Asquith, David Lloyd George, Mattia Battistini, Gabriele D’Annunzio e molti esponenti del bel mondo, nel 1922 Ohlfsen, forse grazie all’intercessione dell’amico Fulco Tosti di Valminuta, ritrasse anche Mussolini dopo una lunga seduta di oltre due ore. Sempre grazie a Tosti, fu anche l’autrice di uno straordinario monumento ai caduti della prima guerra mondiale a Formia, caratterizzato da un’eleganza del gesto della figura principale, quasi da tragico danzatore, che difficilmente si trova in sculture simili.
La vita della Ohlfsen, dopo alcuni viaggi in Australia, finì drammaticamente il 7 febbraio 1948. Quel giorno venne rinvenuta morta all’interno dello studio insieme alla sua compagna; la causa evidente fu un’esalazione di gas, ma si parlò subito di duplice suicidio.