Nei 45 anni di occupazione militare del Sahara Occidentale, i marocchini hanno compiuto arresti arbitrari, violenze, torture, assassinii e hanno fatto sparire nel nulla centinaia di saharawi senza che un solo tribunale internazionale di crimini di guerra li abbia mai giudicati.

Salma è una donna ormai anziana, ma ancora combattiva. Vive in un’ampia tenda tradizionale in un campo profughi a Tindouf. Fin dal 1969 ha partecipato alla resistenza contro l’occupazione spagnola e ha visto la nascita del movimento di guerriglia del Fronte Polisario dopo gli scontri di Zimla nel 1973 contro i colonizzatori spagnoli. Dopo che i marocchini hanno occupato il Sahara occidentale si sono accaniti contro le persone che erano conosciute come Salma, come oppositrici dei colonialisti spagnoli. «Sono stata imprigionata dai marocchini nel dicembre 1975, mi hanno violentata, picchiata procurandomi ferite alle testa e ho perso tutti i denti. Ho subito tante cose brutte, tante sofferenze. Avevo una bambina piccola che allattavo. I marocchini me l’hanno tolta e l’hanno buttata nel deserto… davanti alla mia casa che poi hanno distrutto. Mi hanno portato via tutti i miei beni.
Sono stata arrestata di nuovo nel 1979. In prigione sono stata picchiata talmente tanto che quando sono stata liberata ero paralizzata. Sono rimasta paralizzata per 8 mesi, non riuscivo più a muovere né le mani, né le gambe, né altro. Mi potevo alimentare solo con liquidi come il latte. Oggi Salma vive nei campi profughi in Algeria, ma il suo calvario non è finito. «La nostra vita nella Hamada (il deserto algerino) è terribile. Non c’è vegetazione. Non ci sono animali… Non c’è acqua… solo il caldo che arriva fino a 55 gradi. Le tormente di sabbia ci tolgono il respiro e scoperchiano le tende».

Hassan è un giovane dagli occhi vivi, alto e magro, nato a El Aaiún nei territori occupati. Il 22 maggio 2005 ha partecipato alla grande manifestazioni guidata da Aminatou Haidar. «Tre giorni dopo sono stato incarcerato. La mia sorpresa è stata vedere entrare in carcere l’attivista Aminantou Haidar. Aveva la testa rotta e i vestiti pieni di sangue. C’erano altre donne Saharawi, che erano state tutte denudate». Fa una lunga pausa che mostra come gli costi fatica ricordare questi momenti e poi aggiunge: «Prima di interrogarmi mi hanno tolto i vestiti anche i vestiti intimi, minacciato di morte. Mi hanno violentato tanto. Dopo ore di torture stavo morendo. Sono stato portato all’ospedale del Mihdi dopo sono stato ricoverato 22 giorni. Poi mi hanno riportato nel carcere Nero di El Aaiún. Sono testimone delle barbarie, delle inumanità dei marocchini. Ho iniziato con gli altri prigionieri una sciopero della fame per 52 giorni. Preferivo morire che vivere in quel modo».

Ahmad è un quarantenne. Ha gli occhi lucidi, è sul punto di piangere a ricordare quello che gli è successo. «Nel 1975 avevo appena 4 anni quando hanno arrestato mio padre e non l’ho più visto. Poi hanno arrestato mio fratello maggiore nel 1989. Anch’io sono stato arrestato nella città di Ugda con l’accusa di avere fatto parte del Fronte Polisario. Sono passato per diverse carceri marocchine: Rabat, Ugda, Casablanca, Marrakesh, Agadir e infine alla prigione Nera di El Aaiún. Sono rimasto mesi con gli occhi bendati senza poter vedere nulla. Mi davano solo un pezzo di pane al giorno. Mi hanno torturato immergendomi la testa in acqua sporca e con scariche elettriche. Sono stato privato di qualsiasi tratto umano. Mio fratello quando è stato liberato era paralizzato. Mio padre è stato ucciso durante la detenzione, ma non hanno voluto dirci come è morto. Abbiano cercato di saperne di più ma non hanno detto neanche dove è stato sepolto».

Il capitolo dei «desaparecidos» è uno dei più dolorosi per le famiglie Sarahawi. La madre di uno dei rapiti, Mueilmnin, cerca da anni il figlio che aveva 14 anni. «Noi madri quando ci rivolgiamo a una regione, una provincia o a un tribunale o facciamo un presidio pacifico veniamo picchiate. Figuratevi che le madri più giovani tra noi hanno dai 57 ai 58 anni… Siamo convinte che i nostri famigliari furono rapiti dalle autorità marocchine perché difendevano il diritto all’autodeterminazione, perché partecipavano alle manifestazioni e si opponevano all’oppressione marocchina nel Sahara occidentale. Difendevano il loro paese, le loro madri, le loro sorelle, la loro dignità e lottavano contro le ingiustizie. Le nostre case sono state distrutte e i nostri famigliari vengono emarginati. Ma la ricerca dei nostri figli è irrinunciabile. Li troveremo, vivi o morti».

Samira è la madre di un detenuto, Mohamed che si trova nel carcere Nero. «Quando noi mamme andiamo a visitare i detenuti ci picchiano e ci bastonano. Più di una volta è stato picchiato mio figlio nella sala visite di fronte a me. Quando usciamo dal carcere veniamo pedinate dalle forze marocchine. Ad alcuni saharawi arrestati falsificano i documenti giudiziari. Vengono condannati a 15-30 anni senza alcun fondamento di giustizia e di verità. I miei sentimenti sono come i sentimenti di qualunque madre nel mondo alla quale torturano il figlio. Quando lo incontro e mi racconta le sue sofferenze provo a stare calma, faccio finta di niente, ma il mio cuore si spezza. Quando esco inizio a piangere, non riesco neanche più a mangiare a bere. La nostra unica speranza è l’autodeterminazione».

Fatma è la madre di El Ulai, un altro detenuto politico. «È stato trasferito al Nord. Prima lo visitavo una volta la settimana adesso una volta ogni 4 mesi a causa della distanza. È vietato telefonare e rimango a lungo senza sue notizie. Per il solo fatto che siamo la famiglia di un detenuto la nostra casa viene presidiata e ci perquisiscono in continuazione. Mia figlia studiava ad Agadir. Non ha potuto finire gli studi perché i servizi segreti marocchini la interrogavano e la picchiavano in continuazione. È stata costretta ad abbandonare gli studi ed è diventata una rifugiata politica in Algeria. I nostri figli non sono criminali e non sono assassini Fanno delle manifestazioni pacifiche per chiedere l’autodeterminazione del popolo saharawi. In Marocco non c’è la democrazia né alcun rispetto dei diritti umani».

* I materiali e le interviste sono state raccolte con un lavoro di anni da Giancarlo Bocchi nel corso della realizzazione del documentario «La ribelle del Sahara»