«Il cinema ci mostra che le donne e gli uomini che interpretano dei ruoli, si mettono in gioco, si posizionano a favore della ragione e contro l’ingiustizia». Tiba Chagaf, che abbiamo incontrato nelle strade polverose dei campi profughi saharawi nell’ovest dell’Algeria, è persona tanto sensibile quanto concreta e le sue parole non suonano mai banali e quanto afferma, giunge dalla lunga esperienza come direttore del FiSahara International Film Festival ed al contempo della EFA, la Escuela de Formación Audiovisual rintracciabile nel campo profughi di Boujdour.

Attività che contro ogni pronostico, viste le oggettive difficoltà quotidiane nei luoghi dove vivono i rifugiati, proseguono comunque a spron battuto. La rassegna è infatti andata in scena ad Auserd tra l’undici e il sedici ottobre scorso, tornando ad avere numeri considerevoli di partecipazione dopo la serrata imposta nelle ultime due annualità dalla pandemia da covid19. Affollatissime le proiezioni davanti alle quali, oltre a chi ha intrapreso il viaggio dall’Europa, era maggioritaria la presenza della cittadinanza che ha apprezzato il tenore delle pellicole proposte. La nuova cinematografia saharawi continua infatti nel percorso narrativo intrapreso, che vede un neorealismo diffuso nelle pellicole prodotte. Esemplare in tal senso è il film vincitore Wanibik, diretto dal regista algerino Rabah Slimani, dove si racconta la storia degli studenti della scuola di cinema che creano il progetto conclusivo del percorso formativo, filmando le loro giornate tra il fronte di guerra a ridosso del muro di 2.720 chilometri che divide i territori liberati da quelli occupati e la vita ordinaria nei campi. Il tutto mantenendo allo zenit dei propri pensieri l’eclatante sottotitolo del film «Le persone che vivono davanti alla loro terra».

Di forte impatto anche The Nomad Garden, cortometraggio del giovane regista Mohamed Salem Mohamed Ali, capace di creare al contempo una storia tanto resistente quanto sognante, come spiega lui stesso: «Sono un giardiniere saharawi, nato e cresciuto nei campo profughi. Nel 2018 mentre ero ancora ad Algeri per studiare, ho deciso di smettere per tornare ed aiutare la mia famiglia a ricostruire la nostra casa distrutta dalla pioggia. È stato in quel momento che ho iniziato il mio viaggio in agricoltura. Sono stato ispirato dal modo di vivere dei miei antenati che erano nomadi. Decisi di creare un sistema di coltivazione che ottimizzasse l’uso dell’acqua che da noi è scarsissima, per poi metterlo su di un carro e portarlo in giro nei campi di modo che le persone potessero vedere che si può fare. Ecco da dove viene il titolo Nomad Garden: sono un professionista ambientale e un artista. E seguo anche i principi della permacultura».

Quanto sta accadendo nei campi è un’esemplare storia di resistenza umana, in quanto va ricordato che oltre alla pandemia, a contribuire al peggioramento della qualità della vita negli ultimi tre anni hanno avuto e hanno un peso anche il conflitto ancora in corso tra la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD) e il Marocco reiniziato nel novembre del 2020, oltre a quello russo-ucraino. Il cortocircuito innestato da tali fattori ha portato ad un drastico aumento dei costi necessari a coprire gli approvvigionamenti alimentari che la cooperazione internazionale da decenni organizza e garantisce nei campi. Non solo: l’impossibilità di viaggiare dall’estero verso questi luoghi a seguito delle restrizioni alla libera circolazione per i motivi sanitari ben noti, ha ridotto praticamente a zero per lungo tempo l’organizzazione di eventi culturali come lo stesso FiSahara ed altri simili.

Di contro, i saharawi non si sono arresi, continuando a lavorare in prospettiva, convinti che la cultura abbia un peso rilevante nel contrastare la barbarie degli accadimenti storici e che riesca al contempo a garantire una coscienza collettiva, necessaria per costruire un futuro migliore. Partendo dalla memoria personale e soggettiva, rivolta tanto al passato quanto alle vicende dell’attualità, come sottolinea Chagaf: «Le pellicole più recenti sono delle brevi fiction orientate nelle due direzioni in cui lavoriamo, ovvero utilizzare il cinema per dare visibilità alla causa del nostro popolo, oltre che come strumento di consapevolezza sociale. Con tale approccio abbiamo realizzato gli ultimi due lavori: il primo si intitola LKHLA e verte sulla creazione di utensili e oggetti tradizionali con l’intento di promuovere la nostra cultura, il secondo è Peligro Inminente ed è stato pensato e realizzato per sensibilizzare il pubblico riguardo al problema dell’uso di sostanze stupefacenti».

Tale pellicola, girata dalla regista Azza Mohamed Maulud, è la dimostrazione del lavoro imperniato sul medio e lungo periodo svolto proprio all’interno della EFA, la scuola di cinema, che vede oggi ex allieve ed allievi nella parte degli operatori di settore: «La Escuela de Formación Audiovisual, conta al momento ventisei studenti tra ragazze e ragazzi, di cui sei sono in soprannumero. Andiamo oltre la consueta capienza di venti persone, in quanto può accadere che durante il corso ci siano studenti che per motivi personali non possano terminare l’anno scolastico. Conseguentemente, aumentiamo la soglia per non lasciare posti inutilizzati. Questo perché i progetti che abbiamo in piedi, dove insegnanti e studenti lavorano a stretto contatto, sono soggetti a trovare diverse forme di finanziamenti e per realizzarli, non possiamo sprecare risorse».

Non è solo il mondo del cinema ad essere in effervescenza, anche il teatro lo è. Ancora Chagaf: «Di recente è andata in scena la terza edizione del festival teatrale, concretizzatosi grazie ad un’idea del Ministero della Cultura Saharawi in coordinamento con alcune compagnie teatrali, perlopiù spagnole, che hanno collaborato attivamente. Fare teatro nei campi, non è un’attività dell’ultima ora, in quanto vi è una tradizione presente da anni. È sempre stato usato come momento di svago e allegria. Certo, non abbiamo una vera e propria scuola come la EFA, ma in ogni wilaya (provincia n.d.r.) esistono storicamente gruppi teatrali. Non casualmente alla recente rassegna tutte le wilayas sono state rappresentate sia da un compagnia per adulti, che da una per bambini». Tale tipo di organizzazione non è casuale, ricalca infatti quella amministrativa e sociale che gli esuli saharawi e la loro rappresentanza politica, si sono dati quando sono giunti nei campi profughi.
È infatti la riproposizione del circuito musicale che dalla metà degli anni settanta a seguire ha portato all’affermazione sia dell’orchestra Mártir El Uali, che di carriere personali come quelle di Mariem Hassan e Aziza Brahim.

Prima di assurgere ad uno status artistico internazionale, ogni artista testava le proprie capacità nelle formazioni musicali di ogni singola wilaya, per poi confluire nell’orchestra di rappresentanza ed al contempo essere nel cartellone del principale festival del momento organizzato nei cinque diversi campi profughi. Che rammentiamo aver acquisito da subito lo stesso nome delle città invase dal Marocco durante il primo conflitto: un modello culturale attorno a cui conservare la memoria e costruire il futuro, ancora oggi attualissimo e alla base delle esigenze identitarie dei saharawi.