È il 1932 quando Ernest Hemingway, all’apice della popolarità dopo il successo di critica e di pubblico di Addio alle armi, comincia a progettare un safari in Africa. Non casualmente, è il medesimo periodo nel quale viene data alle stampe Morte nel pomeriggio, la sua prima opera di nonfiction dedicata alla Spagna e all’arte della corrida. Le recensioni saranno tutt’altro che entusiastiche, e particolarmente dura e irrisoria risulterà quella firmata da Max Eastman, corifeo della letteratura proletaria, che in «Bull in the Afternoon» irride il machismo hemingwayano, insinuando che dietro l’esaltazione del torero come eroe virile si nasconda una vena di crudeltà quando non di vigliaccheria.

Il primo safari hemingwayano (ce ne sarà un secondo a distanza di vent’anni, immortalato nelle pagine di un «romanzo africano» rimasto inedito per alcuni decenni e pubblicato postumo con il titolo Vero all’alba), finanziato in larga parte dal padre della seconda moglie, Pauline Pfeiffer, parte nel novembre del 1933 e – con una lunga pausa a Nairobi per curare una dissenteria amebica – si concluderà intorno alla metà di marzo. Rientrato negli Stati Uniti, Hemingway comincia quasi subito la stesura della sua seconda opera di nonfiction, Verdi colline d’Africa, completata a novembre e pubblicata l’anno successivo; e tornerà ancora a rielaborare in chiave letteraria l’esperienza del safari nel 1936, scrivendo due tra i suoi capolavori, vertici assoluti nell’arte del racconto: La breve vita felice di Francis Macomber e Le nevi del Kilimangiaro.

Ecofilia di un macho
Criticato per la tendenza da parte dell’autore a invadere la scena della scrittura e a trasformarla in un palcoscenico autoriflessivo e autopromozionale (per le caratteristiche, quindi, che lo rendono più vicino a certa sensibilità contemporanea), Verdi colline d’Africa – come del resto il suo predecessore, Morte nel pomeriggio – persegue in realtà un solo e dichiarato obiettivo: raccontare un paese, o meglio, una delle possibili incarnazioni di quel «last good country» che Hemingway aveva cominciato a inseguire fin dal suo primo «espatrio», nel 1922.

Questo lungo passaggio, nella quarta parte del reportage africano, è un vero e proprio concentrato delle teorie e degli obiettivi che Hemingway intendeva illustrare e perseguire con i suoi libri di viaggio: «I continenti invecchiano presto quando arriviamo noi. Gli indigeni vivono in armonia con essi, ma gli stranieri distruggono, tagliano le piante, prosciugano, e modificano così il rifornimento dell’acqua, e in breve il suolo, una volta che le zolle sono rivoltate sotto, si isterilisce, e si volatilizza come già è accaduto in tutti i vecchi paesi, e come l’ho visto incominciare nel Canada. Un paese è fatto per rimanere quale noi lo troviamo. Siamo noi i disturbatori e dopo la nostra morte esso si troverà anche del tutto rovinato, ma sarà sempre lì, né sappiamo quali saranno gli ulteriori cambiamenti: suppongo che finiranno tutti come la Mongolia.

«Io sarei tornato in Africa, ma non per guadagnarmi la vita, per questo mi bastavano un paio di matite e poche centinaia di fogli di carta della meno cara. Ma sarei tornato là, dove mi piaceva vivere, vivere veramente, non puramente trascorrere i giorni. I nostri vecchi vennero in America perché allora quello era il luogo nel quale bisognava andare. Era stata una buona terra, ma noi ne avevamo fatto un enorme pasticcio; io adesso me ne sarei andato altrove, come sempre si è avuto il diritto di andare, e come sempre siamo andati. Si faceva sempre in tempo a tornare. Vengano in America gli altri, che non sanno di arrivare ormai troppo tardi. I nostri vecchi l’avevano vista nel suo splendore e si erano battuti per essa quando ne valeva la pena. Adesso io volevo andarmene da qualche altra parte. L’avevamo sempre fatto nel buon tempo andato, e c’erano ancora dei luoghi dove valeva la pena di recarsi».

È stata più volte sottolineata la valenza fortemente ecologica di queste righe hemingwayane, il loro carattere ostinatamente antitecnologico, quasi un contraltare politically correct al più volte deprecato machismo dello scrittore; assai di rado, invece, è stato notato come la ricerca di un «ultimo buon paese» si risolva spesso nella rievocazione nostalgica di un continente integro che, in quanto «luogo nel quale bisognava andare», richiama direttamente il mito dell’America e della sua scoperta. Mito tradito dalla civiltà delle macchine al punto che la sua stessa rievocazione, per potersi compiere ancora, va preceduta da un «andarsene da qualche altra parte»: così, i tanti luoghi dell’esilio che, da Parigi alla Spagna e all’Africa, dal mare aperto della Corrente del Golfo a Cuba, avrebbero accompagnato e scandito la vita di Hemingway come gli strani rintocchi di un orologio biologico, diventano l’ultima possibile forma di fedeltà al proprio orgoglioso essere sempre e comunque americano.

In questo senso, tutta (o quasi) l’opera di Hemingway può essere concepita come un reportage: ma reportage prima di tutto nei meandri della memoria individuale e collettiva, viaggio nello spazio che è al tempo stesso viaggio nel tempo, viaggio di uno sguardo che fissa ostinatamente sequenze di paesaggi e azioni per ritrovare la certezza delle proprie radici.

Se il reportage è in realtà un viaggio verso le proprie origini, finisce per rimanerne escluso, almeno apparentemente, tutto ciò che potrebbe reimmergere il paesaggio nel flusso della storia: l’umanità che lo abita, qualunque componente dell’esistenza che non abbia trovato il proprio riscatto nel rituale di una caccia grossa eseguita secondo le regole: resta quasi solo il tentativo di raccontare una storia che non sia niente più di un safari, di un confronto individuale tra l’io narrante e la natura che lo circonda. Davanti a qualunque paesaggio che porti in sé i segni degli indigeni o di altri cacciatori Hemingway fugge, si proietta verso un altrove, prosegue nel suo viaggio in direzione contraria a tutto ciò che potrebbe essere oggetto di un «report», o suscitare una curiosità da giornalista: «Non m’era mai piaciuto quell’accampamento, e non m’erano mai piaciute le guide e la regione. Il paese aveva un’aria troppo frequentata, troppo sfruttata: sapevamo che c’erano dei kudù, che il principe di Galles vi aveva ucciso il suo, ma c’erano state altre tre spedizioni nella stagione e anche gli indigeni andavano a caccia con la scusa di difendere i raccolti dai babbuini, ma a incontrare un indigeno col suo moschetto cerchiato di ottone pareva bizzarro che dovesse seguire i babbuini dieci miglia lontano dalla sua shamba, e fin sulle colline dove c’erano i kudù. Dissi che era meglio andarcene e provare la nuova regione verso Handeni dove nessuno di noi era mai stato prima».

Ruggine sulla canna del fucile
Tuttavia, questa fuga verso il paesaggio come valore in sé, verso una narrazione che aspira alla purezza di sguardo del discorso pittorico, non può darsi senza che all’interno di essa torni ad affacciarsi il fantasma della cronaca, della descrizione quotidiana, onesta nel rifiutare ogni facile rifugio nella memoria, diretta e brutale. Così, all’esaltazione ferina della caccia si accompagna, come implacabile controcanto, il violento razzismo sotteso al rapporto tra il cacciatore e i suoi portatori. Nel mondo ideale che Hemingway dichiara esplicitamente di sognare e di inseguire nelle sue peregrinazioni africane, gli indigeni hanno diritto di presenza sulla scena del reportage solo in quanto legati al cacciatore da un rapporto di dipendenza materiale. E nelle vesti di servitori, acquistano visibilità, a volte anche diritto di parola, solo finché eseguono ad arte le proprie mansioni. È sufficiente una qualsiasi mancanza perché il rapporto di amicizia e condivisione cameratesca con il cacciatore si incrini e il portatore, la guida o il battitore sia condannato senza bisogno di parole e senza possibilità di pronunciarne a propria difesa. È quanto succede a M’Cola, guida di Hemingway per tutto il safari, quando dimentica di pulire e asciugare la canna del fucile del Bwana: «Tenevo lo Springfield tra le ginocchia e m’accorsi che c’era della ruggine sulla canna. Lo feci scivolare lentamente e guardai attraverso la bocca: era bruno di ruggine fresca.

«Quel bastardo ieri sera, dopo la pioggia, s’è dimenticato di asciugarlo» pensai, e arrabbiatissimo levai l’otturatore. M’Cola mi guardava a testa bassa mentre gli altri due spiavano fuori. Alzai il fucile con una mano perché guardasse lui nella canna, quindi rimisi a posto l’otturatore spingendolo innanzi dolcemente, e tolsi la sicura per esser pronto a sparare.

«M’Cola aveva visto la canna arrugginita. Il suo volto non era mutato. Non gli avevo detto nulla ma ero pieno di sprezzo: c’erano state accusa, colpevolezza e condanna senza bisogno di dire una parola. E restammo seduti là, lui con la testa così bassa che non se ne vedeva più che il cocuzzolo calvo, io appoggiato con la schiena, che guardavo fuori per la fessura, non più compagni ora, né buoni amici».

L’onestà di Hemingway lo costringe a non rimuovere completamente il brusio della storia, le voci mute e inascoltate di chi possedeva la terra, anche quando ricondurle sulla scena equivale a confessare – forse, perfino involontariamente – la propria brutalità. Ed è questa stessa onestà, propria del giornalismo più nobile, che lo porta quasi ad ammettere i limiti di un reportage (e di una narrazione) che si riduca a pittura di paesaggio, a quel landscape painting che pure era la sostanza stessa del suo sogno modernista; e quindi, indirettamente, a denunciare come illusoria la possibilità di assumere, nei confronti delle proprie esperienze, una posizione neutrale e contemplativa, che si risolva in mera tecnica della scrittura, o nella conoscenza delle regole della caccia, o ancora nella aficiòn che consente di conoscere e apprezzare l’arte della corrida.

Il patrimonio di Verdi colline d’Africa, considerata a lungo e a torto un’opera minore, viene riversato quasi senza soluzioni di continuità in un capolavoro come La breve vita felice di Francis Macomber, storia di una battuta di caccia prima al leone e poi al bufalo, nella quale il protagonista passa nel giro di ventiquattr’ore dalla viltà, al coraggio, alla morte per mano della moglie (incidente di caccia? Omicidio? Su questo Hemingway mantiene una fertile ambiguità). C’è la concentrazione ossessiva sui rituali di caccia; la ricerca (vana) di rigenerazione di una coppia americana destinata comunque a distruggersi; lo sguardo cinico e professionale del cacciatore bianco, che di safari vive e che è pronto a svolgere il suo ruolo in ogni possibile implicazione – bere il liquore del suo datore di lavoro e soddisfarne la moglie –, e quello muto e imperscrutabile dei battitori neri. Ma c’è soprattutto la consapevolezza che il «last good country» da inseguire e sognare ha già smesso di esistere, ed è stato già irrimediabilmente sporcato da quegli stessi americani che lo hanno invaso per pochi mesi, alla ricerca di un’innocenza perduta.

Dei Macomber ci viene infatti detto: «Tutto sommato erano considerati una coppia relativamente felice, una di quelle di cui spesso si mormora che stanno per dividersi ma che non si dividono mai, e, come diceva la cronaca mondana, stavano aggiungendo più di un pizzico d’avventura alla loro molto invidiata e immortale storia d’amore con un safari in quello che era noto come il Continente Nero finché i Martin Johnson non lo illuminarono sui tanti schermi cinematografici dove davano la caccia al Vecchio Simba, il leone, al bufalo, a Tembo, l’elefante, e inoltre raccoglievano esemplari per il Museo di storia naturale».

Jennifer Egan, sogni dissipati nell’era di Internet
Il riferimento ai coniugi Martin e Osa Johnson e ai loro documentari, che negli anni Venti avevano portato l’Africa al cinema, smonta il mito dell’avventura in una terra dove nessuno è mai stato e riporta i safari a una dimensione di commodity: una moda che già nel 1909 Theodore Roosevelt aveva contribuito a lanciare con la sua lunghissima spedizione di caccia e raccolta di esemplari selvatici, organizzata dallo Smithsonian Institute e durata quasi un anno, e che proprio Hemingway avrebbe consegnato per sempre alla letteratura, ma anche alle cronache mondane.

Mondanità e letteratura; sogno di rigenerazione e sua materiale impossibilità; purezza del rituale e ineluttabile corruzione: se lo Hemingway africano, come già quello spagnolo, appare continuamente sospeso tra queste due polarità, la spedizione africana raccontata da Jennifer Egan in «Safari», quarto capitolo del suo splendido romanzo Il tempo è un bastardo è forse l’esempio più limpido di quel dissiparsi del tempo e dei sogni e di quella dispersione dei rapporti umani – ancora più devastante nel momento in cui l’iperconnessione dei nuovi media sembra invece favorirli e trasformarli in prassi quotidiana quanto virtuale – che segnano la nostra contemporaneità. Al posto del cacciatore Macomber c’è un produttore, Lou, che il suo matrimonio lo ha già distrutto e vede come transitoria anche la nuova relazione con la giovanissima Mindy, aspirante antropologa, e che si occupa di fotografare gli animali, non certo di ucciderli. La morte del leone (in questo caso, una leonessa) non avviene durante una battuta di caccia.

A ucciderla è Albert, lo scontroso inglese che, perfino nell’aspetto, ricorda da vicino il cacciatore bianco Wilson del racconto di Hemingway; ma lo fa per rimediare a una colossale imprudenza di Chronos, il bassista di un gruppo musicale prodotto da Lou, il quale, pur di ottenere lo scatto migliore, non esita a scendere dalla jeep che lo ospita e avvicinarsi ai leoni fino a esserne aggredito.

Dai leoni alla robotica
Siamo evidentemente nel regno della parodia, anche se nella profonda ambiguità che sottende le opere africane di Hemingway c’era già, in nuce, lo sguardo postmoderno e disilluso di Egan. L’incidente, oltre a procurare a Chronos «trentadue punti sulla guancia sinistra che in un certo senso costituiscono un’altra vittoria (è pur sempre una rockstar)», e ad Albert lo status di eroe, offre a tutti gli altri partecipanti al safari «una storia da raccontare per il resto dei loro giorni, e che spingerà alcuni di loro, tra diversi anni, a cercarsi su Google e Facebook, incapaci di resistere all’allettante illusione di vedere realizzati i propri desideri offerta da simili portali: Che fine avrà fatto…?».

L’ironia di Jennifer Egan non dà scampo, e oltre ai bianchi in trasferta in Africa tocca anche gli stessi, ormai presunti «indigeni». In una delle prime scene del capitolo, al campo della spedizione si presentano i guerrieri samburu, per esibirsi con i loro tamburi e le loro danze. Charlie, la figlia di Lou, prende a ondeggiare davanti a loro, in un gioco di seduzione, e questa è la reazione del guerriero giovane che già in precedenti occasioni si era lasciato andare a un gioco di sguardi con la ragazzina: «Il guerriero sorride a Charlie. Ha diciannove anni, solo cinque più di lei, e se n’è andato dal suo villaggio quando ne aveva dieci. Ma ha cantato per un numero di turisti americani sufficiente a permettergli di capire che Charlie, nel mondo da cui proviene, è una bambina. Fra trentacinque anni, nel 2008, questo guerriero rimarrà coinvolto negli scontri tribali tra kikuyu e luo, e morirà in un incendio. Di qui ad allora, avrà avuto quattro mogli e sessantatré nipoti, uno dei quali, un maschio di nome Joe, erediterà il suo lalema: il pugnale da caccia di ferro che ora il guerriero porta appeso al fianco in un fodero di pelle».

Pugnale che Joe esporrà in un cubo di plexiglas nel suo loft di Tribeca, acquistato grazie all’invenzione di «una tecnologia visiva robotica in grado di registrare ogni minima traccia di movimento irregolare (eredità di un’infanzia passata a perlustrare l’erba in cerca di leoni)». L’arte «primitiva» dei battitori hemingwayani si è trasformata in tecnologia, sancendo il trionfo di chi sa leggere l’erba nella quale il leone sta acquattato su chi, come Macomber, da quell’erba appena smossa ha deciso di fuggire. Perdendo la faccia e forse l’anima.