Un paesaggio che, visto dall’alto, è «il più austero, il più povero del mondo». Un luogo piatto e desolato, immemore e vuoto, ovvero il punto in cui due grandi fiumi, il Paranà e l’Uruguay, confluiscono a formare l’immenso estuario del Río de la Plata, che nel 1729 il gesuita Gaetano Cattaneo descrisse così: «E quando si va verso il mezzo, si perde di vista la spiaggia, né altro si vede all’intorno che cielo ed acqua a guisa di un vastissimo mare». A questo universo acquatico e ai piatti territori che lo circondano è dedicato Il fiume senza sponde Trattato immaginario di Juan José Saer (pubblicato nel 1991 e oggi tradotto per la prima volta in italiano da Gina Maneri e dagli allievi della scuola Tutteuropa di Torino, La Nuova Frontiera, pp. 254, € 18,00) uno dei rari titoli non narrativi del grande romanziere argentino e l’unico scritto su commissione, per una collana sui fiumi del mondo progettata da Alianza Editorial.

Saer – nato nel 1937 a Serodino, in vista del fiume Paranà, e residente a Parigi per buona parte della sua vita – pur tra molti dubbi aveva finito per accettare quell’insolita sfida, che sembrava allontanarlo da una scommessa letteraria orientata alla narrativa e alla più assoluta autonomia formale, ma che lo riportava alle sue origini e al punto focale di tutte le sue opere: una Zona fatta di acque, isole, pianure e città costiere, spazi fisici ben riconoscibili e allo stesso tempo luoghi dell’immaginario.

Con collera e euforia
Non a caso, nel lungo prologo in cui dà conto della genesi e della natura del libro, l’autore mette subito in chiaro che il suo sarà un saggio anomalo, in cui verranno inevitabilmente evocate impressioni personali e episodi autobiografici, a cominciare dal contraddittorio senso di appartenenza e sradicamento suscitato dalle acque fangose dell’estuario, viste dal finestrino dell’aereo che lo porta in Argentina.

Altrettanto intensa, però, è la consapevolezza che né l’esperienza né la memoria gli forniranno sufficiente materia prima, e che si renderà necessario l’esame di innumerevoli fonti e testimonianze (tra le quali soprattutto i resoconti di esploratori e viaggiatori del XVIII e XIX secolo: naturalisti, missionari, militari, ingegneri, marinai, animati da una vivissima e pragmatica curiosità) per dare vita a quello che dovrebbe essere un saggio, ma che in realtà è un ibrido riferibile a una letteratura nazionale ricca di opere difficili da classificare secondo precise tipologie testuali. Libri unici e indefinibili i cui titoli Saer elenca in conclusione del suo Martín Fierro: problemas de género, un breve saggio del 1992.

Dopo avere preso l’impegno di non includere nel racconto nulla di fittizio, pur sapendo che «le sottili fioriture» della finzione trasgrediscono spesso i protocolli del cronista più vigile, l’autore divide il testo in quattro parti – ciascuna corrispondente a una stagione dell’anno, presa a simbolo di aspetti diversi delle vicende argentine – e dispiega via via una sovrabbondanza di materiali eterogenei, esaminando contributi storici e dedicando pagine di grande fascino alla toponomastica, alla flora spontanea e agli animali, ai fenomeni atmosferici, agli spazi urbani, alla cultura ufficiale e non (memorabili i piccoli ritratti del gruppo riunito intorno alla rivista «Sur» e di due esuli profondamente diversi, Roger Caillois e Witold Gombrowicz), alla mescolanza di lingue e popolazioni, alle superbe e quasi oniriche descrizioni della pampa e del cielo sconfinato che le impone grandiose architetture di nubi, alla sanguinosa fondazione delle città e alla tragedia degli indios, ad acute analisi politiche ed economiche valide ancora oggi, al racconto delle prime spedizioni spagnole, come a quello terribile dell’ultima dittatura.

Ci viene così offerta, attraverso suggestive associazioni e la ricomposizione di mille diversi frammenti, una visione complessa, sfaccettata e magnificamente personale del territorio rioplatense, inteso come sinonimo dell’Argentina (la sponda uruguayana dell’estuario viene esclusa sin dal prologo, là dove Saer afferma di non averne esperienza alcuna), la cui contemplazione trasmette allo scrittore, anche dopo anni di assenza, un piacere malinconico, «non privo di euforia né di collera e amarezza».

Sin dal sottotitolo quasi provocatorio – quel Trattato immaginario in cui può leggersi la volontà di contenere, senza eliminarla, la pur ampia componente scientifica, storiografica o antropologica del saggio – è evidente che lo scrittore affronta il testo dalla prospettiva del racconto e in sua funzione, concependolo come un organismo in continuo mutamento, pronto a sottrarsi alle rigide forme imposte dai generi e ad assecondare la voce narrante, adottando lo sguardo «esterno» dell’espatriato, ma senza rinunciare a un punto di vista «interno» e chiaramente soggettivo, che finisce per prevalere quando nel racconto irrompe lo spazio remoto dell’infanzia.
L’autore/narratore diventa così personaggio di una trama che coincide con lo stesso farsi del libro, il procedere della scrittura, la ricerca, la consultazione e il commento delle fonti, nonché l’impressione profonda suscitata da memorie così intime.

Echi di idiomi
Sempre affiorante tra il fluire dei dati e le considerazioni sulle caratteristiche culturali degli argentini, sul loro immaginario e sugli archetipi dispensatori di identità, il ritorno all’origine comporta l’utilizzo di una mitologia personale che rimodella il territorio e la tradizione servendosi di una lingua «privata» («Lengua privada y literatura» è appunto il titolo della relazione che Saer, già malato, non poté leggere a chiusura del Congreso de la Lengua Española del 2004), cresciuta però in un terreno collettivamente fecondato dalle culture e dagli idiomi – spagnolo, portoghese, gallego, italiano e altri ancora – portati dalle successive ondate migratorie, ma anche dai molti e diversi linguaggi aborigeni, la cui eco permane, inalterata e suggestiva, nella toponomastica e in numerosi termini di uso comune.

Di questa lingua ibrida, necessariamente condivisa ma resa unica da uno sfolgorante procedimento estetico, l’autore fa un uso prodigioso sia per quanto riguarda il racconto del vissuto, sia nel reinterpretare il taglio storico e scientifico del saggio, disseminato di considerazioni che demoliscono i luoghi comuni e i miti nazionali più abusati (a partire dalla figura del gaucho, tanto esaltata da Borges e Lugones) e contribuiscono a decostruire l’idea fondante del contrasto fra «civiltà e barbarie» proposto da Domingo Sarmiento nel suo Facundo, suggerendone la complementarità, il loro essere due facce di una stessa medaglia.

Trasmettere è ricreare
Infine, e questo è forse l’aspetto più interessante del Fiume senza sponde Saer apre nel suo tumultuoso, avvincente racconto ampi spiragli che rimandano ai suoi ineguagliabili romanzi (in primo luogo L’arcano e Le nuvole), permettendoci di scorgere la materia della quale la sua narrativa si è nutrita, e soprattutto di gettare uno sguardo su una concezione della letteratura che propone quale patria esclusiva dello scrittore «la fitta giungla del reale», dove è in agguato la necessità di riflettere e interrogarsi tanto sulla natura dell’esperienza, quanto sull’impossibilità di trasmetterla senza ricrearla.