«Per le lande del mondo io molto viaggiai / con chiunque trascorrendo i miei giorni / Vantaggi seppi trarre in ogni angolo / da ogni raccolto io ottenni una spiga»; «Così ricordo d’aver saputo che il coppiere del Nilo / in un anno di carestia non offrì acqua all’Egitto»; «O meraviglia, quale racconto da Bassora / riportai, più dolce persino dei suoi datteri!». Questo instancabile, curioso vagabondare che Sa’di (1210 ca.-1290 ca.) ricorda nel suo Verziere – e sappiamo che fu, prima di ritornare nella nativa Shiraz, in Siria, dove fu fatto prigioniero dai crociati e poi riscattato da un amico per dieci dinâr, in Anatolia, nei deserti dell’Arabia, nello Yemen, nell’Africa del Nord, in India, forse anche in Cina – attraversa tutte le sue pagine. La fama di Sa’di come grande scrittore – è considerato uno dei classici della letteratura persiana medievale – è dovuta proprio al ritmo del suo racconto, che attinge apertamente all’esperienza personale, che distende e anima la riflessione etica con sapide «storie» osservate in ogni tempo e luogo, e poi amabilmente rimemorate.
Un poema narrativo di 8000 versi
Il lettore italiano poteva leggere Il Roseto (Golestân) – tradotto da Pio Filippani-Ronconi per Boringhieri (1965) e da Rita Bargigli, Istituto per l’Oriente (’79) –, ora ha anche la traduzione dell’altro capolavoro di Sa’di di Shiraz: Il Verziere (Bustân) Un manuale di saggezza morale e spirituale dalla Persia del ’200, introduzione, traduzione e note a cura di Carlo Saccone (Centro Essad Bey-Amazon IP, Seattle, pp. 274, € 29,50). Il Verziere – che è un poema narrativo-didattico (mathanavi) di 8000 versi, in distici a rime baciate – è fondamentalmente un «libro di consigli», un trattato di natura etica che si dispiega in precise «stazioni» dedicate alla giustizia, alla generosità, all’amore, all’umiltà, alla rassegnazione, all’appagamento, all’educazione, alla gratitudine, al pentimento, al colloquio con Dio. Ma sarebbe riduttivo considerarlo solo un trattato: alcune pagine ci introducono a temi squisitamente speculativi della gnosi sufica, come l’opposizione tra Forma e Significato, ovvero tra apparenza fenomenica, che è solo illusione, e realtà spirituale, che è un’essenza preziosa e nascosta: «Grandioso è dinanzi a te il mare con le sue onde / alto è il sole splendente quando giunge allo zenit / Ma i seguaci delle Forme quando mai potranno capire / che i seguaci del Significato stanno dentro un regno tale, / in cui se c’è il sole, è un atomo e ancor meno / e se ci sono i sette mari, sono meno di una goccia?». E Sa’di ha versi illuminanti che ci rivelano una straordinaria accettazione del diverso, cosa che può sorprendere solo chi ritiene che «umanesimo musulmano» sia una contraddizione in termini, solo chi pensa – e qui Saccone è giustamente e duramente polemico – «per il persistente giudizio fortemente eurocentrico della cultura europea, sostenuto dalla potenza distorsiva dei media, che l’idea di tolleranza e di umanesimo portino il marchio esclusivo del genio europeo». Dio – così nella grande «storia» che chiude il Verziere – può persino decidere di ascoltare la preghiera di un vecchio mago idolatra zoroastriano, tra lo scandalo di un sufi «esperto di verità»: «Era quel mago ancora col volto insudiciato nella polvere per quell’idolo / che Iddio, il Puro, alla fine volle soddisfare il suo desiderio / Un sufi esperto di verità ne rimase esterrefatto / all’istante si oscurò il suo intimo intemerato / “Ma come, quel vile smarrito adoratore del fuoco / con la testa ancora ebbra del vino della casa degli idoli, / Appena lavato il cuore dall’empietà, le mani dell’infedeltà / Iddio lo ha soddisfatto in tutto quel che aveva desiderato!”».
Per Sa’di la legge religiosa va interpretata alla luce della ragione e più dei riti di devozione, che spesso sono semplicemente esteriori, conta la sincerità dell’animo: «La chiave della porta dell’inferno è quella preghiera / che tu allunghi pensando all’altrui considerazione / se il tuo cammino ti porta altrove che verso il Signore /getteranno nel fuoco te e il tuo tappetino da preghiera!». Instancabile è Sa’di nella denuncia dell’ipocrisia della falsa religione: «State in guardia davanti a questi scorpioni silenziosi / vere belve che dilaniano, ma vestite da umili sufi / Come gatti se ne stanno in un angolo raggomitolati / ma se gli capita una preda la assalgono come cani / (…) / Hanno addosso vesti cucite di toppe nere e bianche / per ipocrisia, ma sotto di nascosto vi ammassano l’oro». E non può che parlare con sarcasmo delle capziose e furiose dispute teologiche: «I dotti convenuti iniziarono le loro dispute / lanciando i loro “perché” e “no, non ci credo!” / Aprirono l’uno all’altro la porta della contesa / superando ogni limite nei loro “sì” e “no, però” / Tu diresti erano come abili galli da combattimento / che si davano addosso con il becco e con gli artigli».
Un racconto fluido ed elegante
Il tutto è detto con una deliziosa precisione espressiva, in un tono discorsivo omogeneo, piano e brillante. Sa’di riesce a dare al lettore l’impressione che sia sempre proprio come dice lui. Con la sua traduzione Saccone, che si è già cimentato con successo con grandi poemi mistici – Il viaggio nel regno del ritorno di Sâna’î, Il Verbo degli uccelli di ’Attâr – con il Libro della fortuna di Alessandro di Nezâmi e con il Canzoniere di Hâfez, ci offre un racconto fluido e persuasivo di grande eleganza, spesso attraversato da una vena scettico-umoristica, e ci restituisce fedelmente il gioco delle immagini. E le immagini e le «storie» sono proprio il cuore dello stile di Sa’di, che in questo modo loda chi parla poco, chi sa mantenere i segreti: «Come conchiglia chi conosce l’essenza dei Segreti / non apre mai bocca se non per mostrare la perla / (…) / Non dire davanti a un muro troppe calunnie / magari qualcuno dietro quel muro ti ascolta / (…) / L’uomo saggio per questo si tiene la bocca cucita / vede che la candela è consumata dalla sua lingua». Ora è il cumulo delle metafore, insieme variate e allusive, che ci colpisce, ora è una misteriosa, essenziale semplicità, come in questa bellissima «storia»: «Una goccia di pioggia cadde da una nuvola / si sentì vergognosa vedendo l’ampio mare / “Di fronte alla marina distesa, io chi sono / Se c’è il mare, io di certo non sono nulla!” / Mentre guardava se stessa con l’occhio del disprezzo / una conchiglia al suo fianco la nutriva con l’anima / E il cielo, intanto, a tal punto portò la cosa / che essa divenne perla famosa degna di re / Ottenne infine altezza per essersi abbassata / bussò alla porta del Nulla e trovò l’Essere / Il nobile saggio sceglie sempre l’umiltà / il ramo carico di frutti il capo piega a terra».
Continuo è il dialogo di Sa’di con il lettore, a consigliarlo, a persuaderlo, ora con leggerezza, ora con emozione, come nell’orgoglioso, sommesso congedo collocato a metà del Verziere: «O tu che accanto alla mia tomba un giorno passerai / lo giuro nell’anima dei più nobili che questo ricorderai: / Se anche polvere si farà Sa’di, qual pena gliene verrà / dal momento che nella sua vita pur polvere era stato! / Nell’impotenza il corpo consegnò infine alla terra / berché egli fosse andato in giro per il mondo simile al vento / E non passerà molto che la terra se lo mangerà / e un’altra volta il vento lo porterà per il mondo». Terra, vento, ma resterà il suo dolce e prezioso canto: «Non è forse vero, dacché sbocciò il Giardino dello Spirito, / che nessun usignolo vi ebbe a cantare così dolcemente? / Meraviglia sarebbe se morisse un simile usignolo / e sulle sue ossa non crescesse poi alcuna rosa!»