Il randagio è la storia di Pat, un cane di razza scozzese, amato e coccolato, metafora di un’anima raminga che cede alle lusinghe del mondo. Un giorno Pat sale in automobile, era già successo. Giunto in città sente l’odore di una femmina, si allontana e non risponde più al richiamo del padrone.

DA QUEL MOMENTO, tutto è perduto. «Aveva il muso color paglia bruciata e le zampe pezzate di nero, come se avesse corso in una palude e si fosse schizzato. Aveva orecchie penzolanti, una coda setolosa e il pelo opaco e sporco. Ma nel muso imbrattato brillavano due occhi con un’espressione quasi umana». Così scriveva Sadeq Hedayat, considerato il padre della letteratura persiana moderna e una sintesi equilibrata tra mondo occidentale, persiano e indiano.

La storia di Pat fa parte della raccolta Il randagio e altri racconti (Carbonio, pp. 150, euro 14,50) nella traduzione magistrale dell’iranista Anna Vanzan. Dello stesso autore, lo scorso anno l’editore aveva offerto al lettore italiano una nuova traduzione – sempre di Vanzan – del capolavoro La civetta cieca, la più famosa storia surrealistica dell’Iran, pubblicata undici anni dopo la sua prima stesura a causa della censura del regime di Reza Shah Pahlavi.

Il filo conduttore delle opere di Hedayat è la morte, un tema ricorrente nella poesia dell’altopiano iranico. Il poeta persiano Omar Khayyam (XII secolo) scriveva, per esempio: «La morte è un soffio del tempo, ed io stesso sono solo un soffio nel soffio. Si sente emettere in un soffio come un suono musicale o una rima. È la morte che, lei, è assoluta certezza». E sono di Sa‘di di Shiraz (XIII secolo) questi versi: «Se qualcuno aprirà il sepolcro dei morti, non distinguerà il ricco dal povero».

SEMPRE PRESENTE negli scritti di Hedayat, la morte s’intreccia a paure ed emozioni. È il caso del racconto Abji Khanum in cui la protagonista è invidiosa della sorella minore Mahrokh. Se la primogenita è alta, magra, scura di carnagione, con grandi labbra carnose e capelli neri, la secondogenita è invece di incarnato chiaro, ha un bel nasino, capelli castani, bellissimi occhi e le fossette agli angoli della bocca. Se la prima è puntigliosa, la seconda è di buon carattere. Per mandare a monte la festa di nozze della sorellina, Abji Khanum si suiciderà buttandosi nella vasca che raccoglie l’acqua: il suo corpo galleggia, i capelli neri intrecciati e attorcigliati come un serpente, l’abito colorato aderente al corpo.

Ma «il viso ha un’espressione luminosa, come se si fosse recata in luogo senza bruttezza né bellezza, dove non esistevano né il matrimonio né il lutto, dove non c’erano né il riso né il pianto, dove non abitavano né felicità né dolore. Era andata in paradiso!»

ANCHE SADEQ HEDAYAT è morto suicida a 48 anni, in un appartamento di Parigi, in solitudine e miseria, nell’aprile del 1951. E purtroppo la morte accomuna anche la traduttrice: se i racconti pubblicati sono soltanto nove, e non dieci come nella versione originale, è perché Anna Vanzan non ha avuto il tempo per finire il suo lavoro e l’editore ha preferito fermarsi lì dove si era fermata lei.

Anna Vanzan ci ha lasciati lo scorso dicembre, nella sua Venezia. In questo libro, a ricordarla sono le note dell’editore Fortunata De Martinis, della figlia Maria Vittoria Paladin e di Jahangir Hedayat, nipote dello scrittore nonché presidente della «Sadeq Hedayat Foundation». Come recita un proverbio indiano e musulmano, «la morte è il cammello nero che si inginocchia davanti a tutte le porte». Prima o poi tocca a tutti, ma Anna se n’è andata troppo presto.