Tra il 1894 e il 1896 Alfred Jarry e Rémy de Gourmont allestirono gli otto numeri della rivista «L’Ymagier» che tendeva al recupero dell’immagine popolaresca in un contesto più artefatto e sofisticato. Erano gli anni in cui Jarry associava alla raccolta di poesie e prose Les Minutes de sable mémorial (1894) una serie di xilografie da lui stesso realizzate, a cominciare da quella che campeggia in copertina, di taglio polisemico, con il blasone a forma di Y in cui si può ravvisare il tema della clessidra. Tali illustrazioni erano parte integrante dell’opera, senza limitarsi a interpretarne il contenuto. Del 1896 è l’edizione originale dell’Ubu roi, riproducente in copertina una xilografia del protagonista, munito di una prominente gidouille, neologismo che designa il ventre spiraliforme, e una testa miniaturizzata, allungata come una piccola pera (da ricordare la recente traduzione illustrata dell’Ubu incatenato, curata da Andrea Rauch per Gallucci). Scrive Alastair Brotchie nella splendida biografia Alfred Jarry, una vita patafisica: «“L’Ymagier”, nonostante la sua aria un po’ arcaica, era anche una rivista d’avanguardia che sosteneva le ultime innovazioni delle arti visive. Contestualizzare le opere dei Nabis nell’ambito della tradizione grafica medievale rientrava nel suo programma. D’altra parte, la rivista era anche il ricettacolo di alcune passioni dei suoi redattori. L’introduzione di Gourmont ne delineava gli interessi: immagini mitiche o religiose, e solo le parole necessarie a spiegare quei “sogni emblematici”». L’intento era quello di affrontare, attraverso l’evoluzione della tecnica xilografica, le tradizioni scaturite dalla cultura popolare con sguardo rigoroso e, al tempo stesso, scanzonato. Il lavoro fu mirabile, anche se ebbe un riscontro circoscritto.

Figure messianiche
Esce ora, per le Edizioni Medusa, La passione di Ubu roi Testi e iconografie sacre (pp. 106, € 15,00), che raccoglie per la prima volta in italiano, a cura e con ottima traduzione di Riccardo De Benedetti, un florilegio di testi e illustrazioni di Jarry realizzati per «L’Ymagier». Il curatore ha orientato la propria scelta in direzione degli interessi «teologici» di Jarry, tenendo in considerazione che la sua opera è disseminata di richiami a Cristo e altre figure messianiche, anche se spesso contaminata da connotazioni a chiave, dal carattere fortemente denigratorio e blasfemo (si pensi, in tal senso, a un libro atipico come L’Amour absolu, pervaso di spunti iconoclastici, rintracciabili sin dal nome del protagonista Aotrou Doue, in bretone «il Signore Dio», che sembra precorrere certi esiti radicali, in bilico tra scatologia ed escatologia, dell’ultimo Artaud). Il volumetto, in tutto degno della patafisica, la «scienza delle soluzioni immaginarie» ideata da Jarry nel suo Faustroll, presenta una serie di tematiche religiose abbinate a xilografie provenienti dalle fonti più disparate: stampe della tradizione popolare distribuite nelle fiere paesane dai colporteurs, immagini di Épinal, Troyes e Orléans, illustrazioni di incunaboli e cinquecentine di taglio agiografico, incisioni di Dürer ecc. Apparvero anche una Maria Maddalena nuda ai piedi della croce incisa da Gauguin, nonché la maestosa figura di César Antéchrist composta dallo stesso Jarry, qui mancanti.
Nel primo brano, riguardante il tema della Crocifissione, il commento di Jarry, anziché chiarire le immagini presentate, si sbizzarrisce dialetticamente intorno alla simbologia delle stesse, rendendo ancora più recondito il loro significato. Nel testo successivo, l’autore confuta le tesi sostenute da Cornelius Curtius in De clavis dominicis (1634), sostenendo che i chiodi adoperati per la Crocifissione di Cristo fossero quattro anziché tre, come in genere rappresentato nell’iconografia tradizionale. L’autore si lancia in una dotta dissertazione sulle varie interpretazioni che figurano nei testi di Patristica (Cipriano, Agostino, Rufino ecc.) intorno al numero dei chiodi. Osserva il curatore: «Fa fede di questo approccio proprio l’apparente disquisizione teologica sui chiodi della Crocefissione, argomento che riguarda meno la dimensione strettamente teologale e più, invece, quella dell’adorazione pietosa che il popolo riserva agli strumenti della morte del Signore (Jarry li chiama “Accessori”)».
In La Vergine e il Bambino vengono esibite diverse immagini sacre della maternità, in cui il «primitivismo» del tratto crea un profondo contrasto con i testi raffinatissimi che fungono da commento, sfocianti in una narrazione dagli esiti larvatamente visionari, di ascendenza apocrifa, dove si dichiara che «nella loro patria, la Madre e il Figlio furono viaggiatori attraverso i briganti e i mostri, in cui la Vergine fu teofora dell’Alessio miracolante; i palmeti piegano i loro rami, il frumento alza la difesa delle sue stoppie, i draghi indicano il cammino».

Testo e immagine
Nella densa postfazione di Hélène Vedrine, riguardante la tematica dell’iconologia e della picta hermeneutica nell’opera jarryana, si legge: «Queste immagini (…) sono caratterizzate da una “oscurità relativa” che mette a dura prova i talenti ermeneutici del lettore: senza il testo è impossibile comprendere che cosa significano esattamente le figure, ma senza le immagini è impossibile raffigurarsi ciò che è necessario nel testo. Si tratta di una regola fondamentale della letteratura emblematica, secondo la quale testo e immagine non devono mai spiegarsi o commentarsi l’un l’altro, e nessuno dei due ha senso senza l’altro». In quest’ambito molto interessanti sono le considerazioni su lavoro tipografico e paratestuale (soprattutto peritestuale) effettuato da Jarry che sembra anticipare le sperimentazioni grafiche di dadaisti e futuristi, proseguito sia con l’esperienza effimera della rivista «Perhindérion», di cui viene proposta l’incisione di Santa Caterina di Dürer, sia con la pubblicazione degli almanacchi ubueschi, in collaborazione con Vollard e Bonnard, debordante in una dimensione grottesca che sfocia in provocazione omnidirezionale, che implode su sé stessa e prefigura i ready-made duchampiani.
La studiosa propone e commenta le xilografie eseguite da Jarry, individuando una serie di motivi ricorrenti, come quello del gufo appollaiato sopra un teschio che si trasforma, in altri contesti, in ciborio e clessidra spezzata, richiamando la duplice figura del canard-lapin che ispirerà la Gestalttheorie e i celebri passi delle Philosophische Untersuchungen di Wittgenstein. Il tema dei gufi, di cui Jarry era un cultore (arrivò a tenerne in cattività diversi esemplari in casa, come ricorda Apollinaire, nauseato dal fetore della carne di cui si cibavano i rapaci), è un Leitmotiv che si ripercuote da un’incisione all’altra, alternandosi a quello dei palotins, dell’architrave, della crocifissione, della chiocciola. Quasi dei simboli araldici (Solmi parlò a questo proposito di «rigore “araldico”») che denunciano la propria estrazione popolaresca e si configurano alla stregua di grimaldelli predisposti ad aprire le porte dello scibile (fisico, metafisico), premesso che i valori di significante e significato non collimano mai.
Un campionario della bêtise, ereditato dagli antesignani dell’odierna tuttologia mediatica Bouvard e Pécuchet, riempie l’horror vacui di questo funambolo della parola, alla ricerca di un senso (non-senso?) non riconducibile a quello, aborrito, abortito, di convenzioni e stereotipi linguistici. Parola indissolubilmente intrecciata all’immagine, dunque, attraverso cui Jarry indagherà la condizione outrée dei propri personaggi, dalle innumerevoli varianti di Ubu (cornuto, incatenato, abbarbicato a una collina) alle imprese paradossali di un avveniristico Supermaschio. Eppure, nell’elenco di «libri pari del dottore», sciorinato nel Faustroll, tra Baudelaire e Rabelais, Verne e l’Odissea, si menziona «ll Vangelo di San Luca, in greco».