Il posto si chiama L’Anaconda, pure se Cesare pesca le anguille che adesso però, come ci ha spiegato bene, non è stagione. Il suo barcone, dipinto di azzurro mare, sta sotto a un cavalcavia, sul Tevere opaco dell’inquinamento, gru dei palazzi in costruzione da lontano, e sopra il rumore incessante del Gra: macchine, camion, pullman, respiro di motori e quiete appena distogli lo sguardo. A tavola ci sono tutti i protagonisti del Sacro Gra di Gianfranco Rosi, si passano ancora stupefatti il Leone d’oro che sembra quasi un oggetto magico. Festa, allegria, il vestito buono delle occasioni speciali. In fondo allo stanzone del ristorante, sulla stufa tipo ghisa fanno bella mostra le teiere, e l’immagine del melograno, un segno della compagna di Cesare che è ucraina.
Ecco l’aristocratico piemontese decaduto, magrissimo, con le vene azzurre sulla pelle trasparente e il cappello di paglia a falde larghe. Dice pacato, con le parole desuete che punteggiano la sua conversazione: « Qualcosa deve cambiare per chi non ha lavoro, non ha casa, lotta per sopravvivere». Applausi.
Sacro Gra, il Leone d’oro della sorpresa e della discordia. Bertolucci, che del film si è innamorato subito, e ha voluto premiarlo, è ora a Parigi da dove «provoca» ripensando alla «scena del burro» di Ultimo tango, quando Marlon Brando sodomizza Maria Schneider. «Né io né Marlon avevamo pianificato ciò che sarebbe accaduto in quella scena. Ci è venuto in mente a colazione, imburrando le tartine … Maria aveva bisogno di essere protetta, e io invece non pensavo altro che al mio film. Ma è così che funziona quando si gira un film. Del resto ho pensato più volte che i miei film erano come dei crimini …» ha raccontato il regista al pubblico della Cinémathéque parigina – che gli dedica una retrospettiva in occasione dell’uscita francese di Io e te.
Non si «autocritica», e meno male, la scena è un pezzo sublime di immaginario, esplorazione della sessualità in rivolta, che era nei tempi, oltre i generi ammessi, come la danza di Brando tra i suoi «fantasmi» cinematografici, e quel desiderio anonimo, che tutto permette ma uccide se diviene dichiarazione d’amore. Crudele, senz’altro, di crudeltà artaudiana, di cui hanno penetrato i segreti più sensibili Luca Guadagnino e Walter Fasano in Bertolucci on Bertolucci (uno dei capolavori della Mostra 2013).
Ma torniamo a Sacro Gra, che oggi arriva in sala (distribuisce Ubu, 40 copie), con l’augurio che vada bene, che conquisti il suo pubblico, è certo una delle sue scommesse anche se non l’unica. Il Pubblico, esternato a ogni occasione come massa gassosa è francamente un’idea imbarazzante, e un po’fastidiosa. Con quella tiritera che va avanti da giorni sui film «da festival» e i film «da pubblico» – l’estate americana ha mostrato che i blockbuster possono andare male …
Chi ha conosciuto Gianfranco Rosi con Below Sea Level (2008), il film girato nel deserto in California forse rimarrà spiazzato. Nel mezzo c’è stato Il Sicario, un corpo a corpo a due implacabile, nel precedente invece c’era l’idea di gruppo, di una comunità chiusa in un orizzonte infinito, un po’ come potrebbe essere quello dell’anello intorno a Roma.
«Sacro Gra è un film privo di trama, in cui l’astrazione diventa un elemento narrativo» dice Gianfranco Rosi, l’aria stanca, molte sigarette, seduto al tavolone in mezzo ai suoi compagni d’avventura. Oltre a quelli già citati, il principe Filippo e la consorte Xsenia, con la loro bimbetta vestita di rosa, tutù e scarpine da ballerina, su cui veglia attenta la baby sitter: Francesco, il palmologo, che era il più ostile alla macchina da presa, non voleva farsi filmare. Eppure, a sentirlo, Rosi lo ha conquistato: un africano a Roma, il regista è nato infatti a Asmara, sembrava quasi un gioco del destino che finisse lì, tra le palme d’Africa a cui dedica la vita, sperimentando con ostinazione metodi per sconfiggere il parassita che le divora. Cruch Cruch cruch, nelle cuffie con cui li scruta, quei mostri alieni producono un rumore assordante: «Sembra la gente al ristorante» sussurra tra sé e sé Francesco, nella sua solitudine «circolare». Rosi racconta che alla fine lo ha filmato in due ore, dopo due anni che non ci era riuscito: «Ma filmare a lungo permette di cogliere una verità».
Gaetano, l’attore di fotoromanzi, è un po’ scassato per una caduta, ringrazia Rosi che gli ha permesso di fare qualche incontro giusto. Roberto, il barelliere che nel film corre su e giù sull’ambulanza, e con tenerezza accudisce la mamma un po’ svanita, sorride, pronto, tra poco, a tornare a lavoro. Ognuno di loro è un mondo, una declinazione eccentrica di quel luogo gigantesco intorno alla capitale che è metropoli e insieme no, che viene percepito come uno scorrimento, eppure lì ci vivono e ci muoiono, accadono miracoli e eclissi.
L’idea del film, Rosi lo ha raccontato molte volte, viene dal libro di Nicolò Bassetti – anche lui al tavolo – che ha esplorato a piedi i 70 km che fanno del Gra la più estesa autostrada urbana d’Italia. Bassetti è un urbanista, lavora sui luoghi che si attraversano ma non si vedono. Così ha cercato di tracciare una cartografia del Gra percorrendolo a piedi, in solitudine (300 km in 20 giorni), fatta da persone e da storie – il Progetto Sacro Gra è un libro dello stesso Bassetti insieme a Sapo Matteucci, con foto di Massimo Vitali.
«I miei personaggi non hanno passato e forse nemmeno futuro» dice Rosi, è questa l’«astrazione», un lavoro «a sottrarre» (impossibile senza l’occhio di Jacopo Quadri, che ha montato il film). Era un po’ così anche in Below Sea Level, con la differenza che lì, nonostante tutto, formavano una «comunità», seppure sgangheratissima. Lungo il Gra, invece, ci sono presenza singolari, che magari condividono un quotidiano impossibile (tipo gli aerei che senza sosta passano sulle case di una stanza in cui vivono Paolo e sua figlia Amelia) con altri, ma emergono in modo isolato. Nel deserto americano Rosi ci ha passato dieci anni, sul Gra quasi tre. É quel filmare a lungo» che però nel suo fare-cinema non è questione di quantità. É piuttosto un tempo dal quale affiorano, improvvise, commuoventi epifanie: la neve e il silenzio del traffico impazzito; le croci di legno che pure a Prima Porta scade l’alloggio, e sembra di stare a Sarajevo; le mani di Roberto il barelliere che sfiorano quelle della mamma: «Sembri una principessa» sussurra. Eppure è proprio il tempo una delle cose che a tratti manca al film, il tempo del Gra, che forse è inespugnabile, chiuso nelle macchine-in-movimento. Rosi lo scandisce con le persone, appunto, che trasforma quasi in archetipi, come lo erano i marginali di Below Sea Level. Figure di una mitologia americana lì, figure di una commedia all’italiana qui, crudeltà compresa. La differenza sta nella distanza, in una «immersione» che sul Gra appare impossibile. «Dicono che col rossetto rosso sembro una troia» commenta la ragazza col sedere di fuori che lavora ballando sul tavolo del bar in mezzo ai drink. Magari è anche questo il «tempo» del Gra?