Nessuno sa più come descrivere lo stato attuale dei campi profughi dei palestinesi in Libano:  la situazione è diventata  miserabile, a prescindere dalle ragioni storiche che ne hanno causato l’esistenza. La memoria ci riporta a 70 anni fa, quando i massacri sionisti del 1947-48 hanno costretto i palestinesi residenti nella loro patria a lasciare case e averi, temendo per i loro figli e le loro famiglie, a causa dell’orrore e dei crimini commessi contro civili, bambini, donne e anziani, a seguito della nascita dello Stato di Israele sulla terra di Palestina.

I PALESTINESI proprietari dei terreni e titolari del diritto in patria sono diventati  rifugiati che vivono in campi vicini e allo stesso tempo lontani dalla loro terra e patria natale, sostituiti da  immigrati, cittadini di un altro paese, che hanno occupato case e terre, hanno ucciso uomini e donne, e distrutto pietre e tagliato alberi, per una bieca promessa che è la Dichiarazione di Balfour, di cui ricorre il  centenario. Una promessa coloniale britannica ha ceduto la terra palestinese all’entità sionista e a chi non ne è mai stato proprietario.

I palestinesi non perdonano e non perdoneranno mai quella promessa. E non dimenticheranno mai il loro diritto a tornare in patria, nonostante la miseria, la povertà, la privazione e l’ingiustizia vissuta nella condizione di rifugiati.

LA VITA NEL CAMPO, nella maggior parte delle case, è come in un sepolcro senz’aria, senz’acqua, né sole né  corrente elettrica. In poche parole, sono luoghi inadatti alla vita umana, in  molti casi neppure degni di animali. La vita nel campo è diversa dalla normalità: le viuzze sono strettissime e accolgono il visitatore con una rete di cavi dell’energia elettrica sovraposizionati e tubi dell’acqua, che ogni inverno causano la morte di molte persone in caso di fulmini. Nel campo vivono palestinesi e libanesi, siriani e iracheni,  sudanesi ed etiopi, indiani e curdi, e ancora altre etnie; ci sono tossicodipendenti e disoccupati, venditori, barbieri, medici, ingegneri e infermieri, insegnanti.

[do action=”citazione”]Il campo, un luogo che non somiglia a nessun altro, è un ricettacolo di problemi, ignoranza, malattie sociali e psicologiche, così come violenza e aggressività. Nel campo convivono il credente e l’ateo, il radicale e il laico. Malgrado tutto ciò, il visitatore sarà il benvenuto, troverà il sorriso e l’ospitalità. Il campo ha bisogno di sostegno e solidarietà,  e accoglie i visitatori sempre.[/do]

LA SUPERFICIE dei campi è stata stabilita dallo Stato libanese nel 1948 ed è ancora la stessa, nonostante l’aumento della popolazione, visto che la quarta generazione di profughi vive nella stessa casa e nello stesso campo. Tra gli stretti vicoli e le case sovraffollate c’è buio durante il giorno, e gli edifici crescono in verticale senza fondamenta e senza un piano urbanistico. La costruzione verticale è diventata la soluzione al problema particolare dell’aumento della popolazione, a causa dell’impossibilità di avere più superficie, in particolare dopo la decisione del governo libanese di vietare ai palestinesi il diritto di acquistare un’abitazione, una decisione ingiusta e contraria ai diritti umani e a ogni credo religioso, anche perché il governo libanese ha respinto la proposta di assegnazione di terre alternative ai campi distrutti da Israele (Nabatiyeh camp nel 1971) e nella guerra civile condotta dalle forze cristiane isolazioniste (Tal al-Zaatar e Jeser al-Basha nel 1976).

LA GUERRA IN SIRIA ha avuto un effetto negativo sui campi profughi palestinesi in Libano, che adesso ospitano decine di migliaia di profughi palestinesi e siriani costretti a lasciare la Siria; nel campo di Burj el Barajneh, vicino a Beirut, il numero dei residenti siriani attualmente è di 24mila persone: una cifra che supera il numero dei palestinesi già residenti. La situazione non è migliore nel campo di Shatila: il numero dei palestinesi è diventato di gran lunga inferiore al numero di siriani e di altri cittadini arabi, asiatici e africani; solo il 25-30% dei profughi è palestinese.

DA QUANDO SONO STATI FONDATI nel 1948, i campi hanno attraversato diverse fasi: all’inizio costituiti da tende per famiglie, poi grazie all’Unrwa-Onu sono diventati costruzioni di una stanza per  famiglia. Fino al 1970 gli abitanti erano sottoposti all’autorità di sicurezza libanese, che praticava tutte le forme di ingiustizia e di oppressione contro i palestinesi; questa fase è finita con la rivoluzione palestinese e l’ingresso dell’Olp nei campi, che li ha liberati dall’autorità libanese; è stata la fase d’oro per i campi e per tutti i palestinesi che vivono in Libano.

IN QUESTA SECONDA FASE i campi sono diventati focolai di patriottismo rivoluzionario, e serbatoio umano che forniva uomini e ragazzi a tutte le organizzazioni della rivoluzione.
Ne è conseguito anche il miglioramento delle condizioni abitative; i tetti di lamiere e zinco sono stati sostituiti da tetti di cemento.

E così i palestinesi hanno potuto avere  case degne di questo nome, anche perché fino ad allora era vietato ammodernare e riparare le case. La terza fase dei campi è iniziata quando l’Olp e le sue forze militari hanno lasciato il Libano, nel 1982, come conseguenza della guerra scatenata da Israele e dell’accordo firmato tra Olp, governo libanese e amministrazione degli Usa, sotto gli auspici di una garanzia internazionale di protezione dei campi, rimasti senza armi e senza combattenti.

LA SITUAZIONE È PEGGIORATA di nuovo; nella seconda metà del mese di settembre del 1982 venne consumato l’orrendo massacro di Sabra e Shatila, perpetrato dalle milizie cristiane, d’estrema destra e terroriste, sotto la supervisione e la cura dell’esercito israeliano che, sotto il comando di Ariel Sharon, occupava la città di Beirut e altre zone del Libano.

E DOPO QUESTO MASSACRO i campi profughi vicino a Beirut e nel sud del Libano hanno subito le guerre interne libanesi, che hanno causato morti e distruzione delle case; esse sono state poi ricostruite di nuovo, per essere abitate dalle nuove generazioni di profughi.

Rimanere nei campi malgrado la situazione miserabile non è la «scelta patriottica» dei palestinesi, perché i palestinesi dei campi hanno tenuto ferma la loro  determinazione a rivendicare il diritto al ritorno in patria, e hanno conservato l’identità e l’accento orgoglioso della lotta degli antenati e dei martiri, che sono caduti per il diritto al ritorno.

LA DETERMINAZIONE È FORTE, anche se alcuni dei giovani vivono in uno stato di disperazione derivante dalle difficili condizioni di vita e dalla situazione di discriminazione nei loro confronti, visto che viene impedito l’esercizio di molte professioni, come quelle di medico, ingegnere, farmacista.

Ci sono ben 37 professioni che i palestinesi in Libano non possono esercitare. Questa categoria di giovani palestinesi guarda all’Europa, agli Usa, al Canada come a luoghi di immigrazione per sfuggire alla miseria e all’oppressione, ma questo gruppo continua a insistere sul suo diritto al ritorno.

Molti dei figli di palestinesi che hanno lasciato i campi del Libano, quando ottengono una cittadinanza che permette di visitare la loro terra d’origine, vanno nei loro villaggi e a conoscere la loro patria; ogni palestinese porta con sé la sua patria d’origine ovunque vada.

LA FRUSTRAZIONE vissuta dai figli dei campi ha molti motivi, i più importanti dei quali sono forse le leggi ingiuste, la disastrosa situazione abitativa e i servizi dell’Unrwa-Onu in declino  in tutti i settori, salute, educazione, ambito sociale, sanitario e di soccorso. Si aggiungono a questo le divergenze politiche fra palestinesi.

Nonostante tutto, si deve ricordare che le istituzioni civili palestinesi e alcune delle iniziative dei giovani contribuiscono ad alleviare le sofferenze fornendo assistenza e opportunità di lavoro, e organizzando attività educative per i bambini, i giovani e le donne. La causa prima di questa situazione è l’occupazione israeliana e l’incapacità della comunità internazionale di attuare le proprie risoluzioni riguardanti la causa palestinese.

IL CAMPO DI SHATILA, che ha subito un massacro terribile trentacinque anni fa, si prepara a ricevere la delegazione italiana del Comitato «Per non dimenticare il massacro di Sabra e Shatila», per commemorare l’anniversario,  come è consuetudine da ben sedici anni, grazie al fondatore del comitato Stefano Chiarini, giornalista del manifesto che ha sostenuto la lotta dei popoli oppressi; i suoi scritti e i suoi articoli sono stati un’arma più efficace di tutte le armi e di tutti gli slogan.

In occasione della commemorazione, come non ricordare lo sforzo e la responsabilità di chi ha proseguito il lavoro di Stefano Chiarini nel comitato e del giornalista Maurizio Musolino, scomparso un anno fa? Noi, come anche i bambini dei campi in Libano, abbiamo piena fiducia nel fatto che i membri del Comitato continueranno sulla loro strada che ha fatto conoscere al mondo l’orrore della strage, e ha ricordato agli amanti della giustizia, della pace, della libertà e dei diritti umani che i criminali assassini devono essere puniti, e che le famiglie delle vittime del massacro sono sostenute nel.

È un diritto per gli italiani, che ogni anno costituiscono la delegazione estera più numerosa, di essere fieri e orgogliosi del loro ruolo in questa iniziativa di solidarietà. I campi del Libano, a Beirut, a nord e a sud, attendono con amore – non c’è altra parola per dirlo – il loro arrivo come ogni anno.

(Traduzione di Bassam Saleh)

* Associazione Bait Atfal Alsumud partner di «Per non dimenticare Sabra e Chatila»