Deir Yassin, Sabra e Chatila, Jenin, e ancora Gaza, Qana e decine di altri massacri, crudeli come tutti i massacri e caduti nel silenzio di un Occidente che si copre bocca, occhi e orecchie quando il carnefice è Israele. Una spirale che sembra inarrestabile e che si poggia sull’impunità degli assassini. Nessuna giustizia per queste donne e questi uomini. Appunto da questa profonda ingiustizia ha preso vita, oramai quindici anni fa, il Comitato «Per non dimenticare Sabra e Chatila», creato dalla lungimiranza di un eccezionale giornalista del manifesto, Stefano Chiarini. Da allora ogni anno a settembre una delegazione si reca a Beirut per non dimenticare, e per chiedere che la legalità internazionale valga anche per il popolo palestinese.

Quest’anno le celebrazioni per il 32° anniversario del massacro risentono del recente attacco a Gaza, vecchi crimini si mischiano con i nuovi, e così Gaza finisce per essere il perno degli incontri. È diffusa la consapevolezza che l’impunità genera nuovi mostri e perpetua i crimini, fra i più giovani però c’è anche un senso di impotenza. Ahmad ha 22 anni, è del campo di Nahr El Bared, ed è un militante del Fronte popolare, appena mi vede inizia a raccontarmi che a Gaza i palestinesi hanno vinto, che i sionisti sono con le spalle al muro, ma appena la discussione tocca la cruda quotidianità è lui stesso a spiegarmi che lì ha tanti amici, che li sente via internet tutti i giorni, e che gli raccontano come finiti i bombardamenti tutto sia ritornato come prima: stesso embargo, stesso senso claustrofobico, stessa mancanza di futuro, stesse divisioni fra Hamas e Fatah. Nelle sue parole non c’è retorica.

Di Gaza ci parla anche il dottor Ghassan Abu Seta, un medico chirurgo plastico di Beirut, figlio di genitori palestinesi e libanesi, che durante i bombardamenti ha deciso di andare a prestare il suo aiuto a Gaza. Ci racconta delle difficoltà per entrare e delle limitazioni che la stessa amministrazione di Gaza frapponeva al suo lavoro. «C’erano morti, tantissimi feriti bisognosi di cure, i medici erano pochi ed erano costretti a turni spaventosi. Che senso aveva impedirci di lavorare?». Gassan racconta di un suo collega che appresa la notizia della morte del nipotino ha smesso di lavorare solo il tempo di una sigaretta… bisognava pensare ai vivi.

Gli stessi vivi a cui ci esorta a pensare il responsabile per le questioni palestinesi del Partito Hezbollah: «Dobbiamo onorare i martiri, ma la resistenza deve pensare alle donne e agli uomini che soffrono oggi, deve pensare alle migliaia di prigionieri che illegalmente sono detenuti nelle carceri di Israele». Un appello che trova terreno fertile all’interno della delegazione. Bassam Saleh, da oltre quarant’anni in Italia, è alla guida del comitato italiano per la solidarietà ai prigionieri politici palestinesi. Bassam viene in Libano da molti anni ma ad ogni incontro non riesce a nascondere l’emozione. «Non bisogna mai smettere di ricordare i crimini, ma soprattutto dobbiamo ricordare che nei campi vivono ancora tantissimi rifugiati in condizioni miserrime, dobbiamo ricordare il loro diritto a tornare nelle loro case. La nostra presenza li fa sentire meno soli e a chi mi dice che non serve a nulla gli rispondo che “le battaglie perse sono quelle che non si combattono…”».

Chissà quanta consapevolezza di questo c’è nelle teste di quei giovani che ci vedono passare per le strette vie di Chatila. Ci guardano cercando ci capire cosa pensiamo e nello stesso tempo sembrano urlarci il loro senso di impotenza, la loro rabbia. Samihe non ha più di vent’anni, ma il suo sguardo è duro come i suoi lineamenti. Ci ringrazia, quando passiamo davanti alla sua casa. Ma poi rivolto al nostro accompagnatore dice: «Vedi, vengono dall’Italia, ma non dai paesi qui intorno, i nostri fratelli arabi ci hanno abbandonato. E anche noi continuiamo a litigare fra palestinesi… Non meritiamo questo». Di anno in anno cresce la disillusione fra i palestinesi. Un brutto sentimento.

Eppure qualche piccola vittoria in questi anni sono riusciti ad ottenerla. Nahr El Bared, il campo a nord di Tripoli, distrutto dall’esercito libanese nel 2007, sta risorgendo. Per la prima volta nella storia del Paese dei cedri un campo distrutto viene ricostruito. Non era successo a Sabra e a Tel Azzatahar. Il miracolo è frutto della tenacia e dell’ostinazione dei palestinesi che vivono in Libano, ma anche a Marwan Al Abd, leader del fronte popolare in Libano e responsabile per la ricostruzione. Marwan ci racconta delle difficoltà affrontate, della volontà di coinvolgere la popolazione e degli ostacoli che i paesi donatori e il governo libanese hanno frapposto al suo lavoro. Oggi il campo è ricostruito quasi per metà e i lavori vanno avanti. Marwan sottolinea le analogie con quanto accaduto sette anni fa a Nahr El Bared e quanto sta accadendo oggi in Siria e Iraq con l’Isis. «Il gruppo Fatah Al Islam, che si era nascosto in una parte del campo, non era diverso dai criminali di oggi dell’Isis. E noi palestinesi avevamo capito bene, in anticipo sui tempi, alcune caratteristiche di questo fenomeno. Non si trattava di al Qaeda, ma di qualcosa di diverso. Come altri gruppi dell’estremismo islamico però erano nati ed erano pagati da “insospettabili” di turno». Del fenomeno Isis ci parla anche il segretario generale del Partito nasseriano libanese, Osama Sa’ad. Osama ci spiega che «attualmente Isis non è operativo in Libano, anche se le idee e probabilmente alcune cellule dormienti, sono in agguato. Dobbiamo stare attenti. Noi – insiste Osama – combattiamo il sionismo, l’imperialismo e sappiamo che queste forme di oscurantismo sono figlie e complici di quegli stessi poteri». In questi giorni il Libano è un incrocio di commemorazioni, i maroniti ricordano l’uccisione di Bashir Gemayel, un omicidio dalle tinte oscure e mai chiarito, i progressisti libanesi, l’inizio della resistenza e i palestinesi Sabra e Chatila. Anche nelle ricorrenze il Libano non smette di essere il paese delle divisioni…

Domani ci sarà una manifestazione che culminerà nella fossa comune di Sabra. I palestinesi si stanno preparando. Si preparano le forze politiche e sociali, ma soprattutto i giovani che riempiranno quel corteo con la musica tradizionale palestinese. È anche questo un modo di lottare contro l’oscurantismo. L’arte da sempre è stato un fenomenale antidoto a chi voleva uccidere l’uomo, oggi lo è contro chi vuole uccidere l’idea stessa di Palestina. Di tutto questo è convinta Tullia, la figlia maggiore di Stefano Chiarini, che da anni è una delle colonne del Comitato per non dimenticare…: «È fondamentale essere qui, per non dimenticare quei crimini, per non lasciare soli i nostri amici palestinesi. Ma oggi lo è ancora di più dopo Gaza. Noi in Italia dobbiamo lavorare per coinvolgere chi non ha la nostra stessa sensibilità, lo vedo fra i miei coetanei (Tullia ha 20 anni) in pochi conoscono la questione palestinese e la loro sensibilità è solo superficiale e figlia del momento. Ma ogni volta che vengo qui mi pongo una domanda: forse ripongono in noi una fiducia eccessiva. Noi siamo deboli e il contesto del nostro Paese non ci aiuta. È una sensazione bruttissima». E così anche le frustrazioni ci legano e ci fanno sentire ancora più vicini al popolo palestinese.