Ella Fitzgerald canta fuoriscena e, dietro di lei, appena sfocato Charlie Parker (senza sassofono) sorride nella foto scattata a Parigi nel 1955, poco prima della sua morte. Serissima, invece, appare Annette, la moglie di Alberto Giacometti, mentre posa per lui nello studio di Montparnasse: Sabine Weiss (Saint-Gingolph, Svizzera 1924-Parigi 2021) era molto amica di entrambi. Nelle sue fotografie persone famose e perfetti sconosciuti – clochard, gitani, anziani della Comunità Familiare per alienati di Dun-sur-Auron e bambini nel Tirolo, a Parigi, Avignone, New York… – hanno la stessa dignità di esseri umani.

«È nei piccoli fatti della vita quotidiana e anche nei riti, nelle fiere, nelle riunioni politiche, nelle guerre, nell’amore e nella morte che un fotografo può testimoniare quanto esiste di più profondo nell’uomo; là dove è da solo di fronte all’incomprensione, all’ineffabile», ha affermato Weiss.

Quasi sempre la fotografa aveva due apparecchi al collo: uno con la pellicola a colori e l’altro con quella in bianco e nero: oltre alla Rolleiflex aveva la Leica e la Linhof. La produzione a colori era riservata soprattutto alla pubblicità e ai servizi per le riviste di viaggi e moda (dal 1952 al ‘61 collabora con Vogue), come la foto pubblicata nel ’58 su Life in cui Yves Saint Laurent posa tra le elegantissime modelle in occasione della sua prima collezione per la Maison Dior. Ma è soprattutto al bianco e nero con le possibili declinazioni di grigio che è affidato il racconto di Sabine Weiss. La poesia dell’istante, prima retrospettiva italiana dedicata alla fotografa svizzera naturalizzata francese, co-prodotta dalla Fondazione di Venezia insieme a Jeu de Paume, Rencontres de la photographie d’Arles, Estate Sabine Weiss e Musée Photo Elysée e curata da Virginie Chardin alla Casa dei Tre Oci di Venezia (fino al 23 ottobre).

Un appuntamento che segna anche un cambiamento radicale nell’attività espositiva della Fondazione di Venezia che lo scorso anno ha venduto lo storico palazzetto alla Giudecca al filantropo Nicolas Berggruen: la fotografia rimane, comunque, una priorità per l’istituzione veneziana che sempre con la direzione artistica di Denis Curti proseguirà il suo programma alla Fondazione Cini.

La carriera dell’ultima rappresentante dei fotografi umanisti francesi (Robert Doisneau, Willy Ronis, Édouard Boubat, Brassaï, Izis) – unica donna – viene ripercorsa attraverso una selezione di circa 200 fotografie tra vintage e «modern argentic print», documenti, giornali e immagini dei film La Chambre Noire (1965) di Claude Fayard, Sabine Weiss (2005) di Jean-Pierre Franey e Il mio lavoro come fotografa (2014) di Stéphanie Grosjean. Con entusiasmo Sabine Weiss (nata Weber) aveva partecipato, insieme alla curatrice francese e alla sua assistente Laure Delloye Augustins, alla selezione delle opere, aprendo il suo preziosissimo archivio che nel 2017 ha donato al Musée Photo Elysée di Losanna.

Sabine Weiss non si considerava femminista, malgrado facesse un lavoro che all’epoca era appannaggio maschile…

Era una donna con una personalità molto forte e non aveva certo paura di quello che gli altri potessero dire. È sempre stata molto indipendente, aveva lasciato la famiglia a 17 anni quando decise di fare la fotografa. Il padre disse perché no? Però le fece fare un apprendistato nello studio fotografico di Paul Boissonnas, a Ginevra, dove prese il diploma. Subito dopo la guerra, nel 1946, andò a Parigi dove lavorò come assistente del fotografo tedesco Willy Maywald. La fotografia per lei era una vocazione. No, Sabine non era interessata a definirsi femminista. Ha fatto veramente quello che ha voluto. Ma pur non avendo dovuto combattere per lavorare come fotografa, solo nel 2020 è stata nominata vincitrice del premio Women in Motion ai Rencontres d’Arles. Nel tempo si sono sempre fatte mostre di Robert Doisneau (nel ’52 Weiss entra nell’agenzia Rapho proprio su segnalazione di Doisneau – ndR), di Ronis ed altri, ma mai di Sabine Weiss malgrado facesse parte del loro gruppo. La sua prima mostra importante è stata nel 2015 a Jeu de Paume. Quando nasceva un bambino, o magari c’era da fare un servizio di moda, l’agenzia mandava sempre lei perché era donna. Sabine, però, non sentiva il bisogno di un riconoscimento professionale, era felice già per il fatto di fare il lavoro che voleva e poi amava suo marito. «Ho una vita meravigliosa», diceva. «Posso viaggiare e andare ovunque».

Il suo sguardo, però, è sempre stato attento a cogliere nel quotidiano donne in azione, mentre camminano, parlano, pregano, ballano…

Non posso dire che fosse concentrata sull’argomento femminile, era interessata alla gente, soprattutto alle persone vulnerabili, ai bambini e agli anziani. Persone semplici, tristi o sole. Fotografava molto sia le famiglie ricche che quelle povere, le persone famose nelle loro case, i grandi chef con i piatti… qualunque cosa.

In mostra vediamo anche i primissimi scatti che fece a 11 anni…

Sì, c’è la prima pellicola scattata nel giardino di casa, nel 1935, con la madre e la sorella. Nella teca è esposto il suo diploma e il primo reportage pubblicato sui soldati americani in licenza a Ginevra. L’arrivo a Parigi coincide anche con l’incontro con il pittore americano Hugh Weiss (1925-2007). Un grande amore durato per tutta la vita (nel ‘64 adottarono la figlia Marion – ndR). Erano una coppia perfettamente unita. Hugh era una persona molto divertente. In molte delle foto di Sabine si riflette la loro vita di coppia, le loro amicizie. Non c’è foto in cui non ridano. Nel 1949, quando si conobbero, era difficile trovare un appartamento a Parigi, ne affittarono uno piccolissimo (in Boulevard Murat – ndR) dove c’era un lavandino ma non l’acqua. Avevano solo l’elettricità. Lì c’era anche il loro studio, da una parte per la fotografia e dall’altra per la pittura. Solo in un secondo momento poterono spostarsi al piano superiore nella casa in cui hanno vissuto sempre. Lei è morta lì. Una casa piena di oggetti e opere di altri artisti, come si può vedere dalle immagini fotografiche.

Alla Casa dei Tre Oci vediamo anche immagini di Venezia del 1950, l’anno del matrimonio…

Sabine volle mostrare a Hugh il suo villaggio natìo, ma non avendo soldi andarono in Svizzera in autostop e da lì decisero di proseguire il viaggio a Venezia passando per Milano, Stresa, le Isole Borromee, Verona e Padova. Lei attaccò tutti i provini su un album. C’è anche Sabine fotografata da Hugh nella loggia di Palazzo Ducale: ingrandendo l’immagine abbiamo scoperto che non manca la sigaretta. Sabine era una grande fumatrice! Abbiamo pensato di esporre anche un dipinto di Hugh che era nella loro casa, perché il soggetto ricorrente della sua pittura erano proprio loro due. Lei amava l’idea che suo marito fosse presente nella mostra. Hugh l’ha sempre supportata. Partecipava al suo lavoro, alcune volte scegliendo le foto dai fogli di contatto, ma soprattutto l’aveva aiutata tantissimo nelle relazioni con i musei americani. Lui credeva più in lei che nel suo stesso lavoro. Sabine era una bravissima fotografa, però diceva sempre di non essere un’artista, solo una testimone. «Mio marito è l’artista! Io non creo nulla di nuovo, prendo dalla realtà».

So che non è facile, ma quale pensi che sia la sua fotografia più rappresentativa?

In mostra ci sono anche le tre immagini del ’54 scelte da Edward Steichen per la mostra The Family of Man (1955) al MoMA di New York, tra cui quelle scattate in Portogallo ai fedeli che pregano nella chiesa a Nazaré e lì accanto il Ballo della domenica. Sebbene fosse atea, Sabine amava l’atmosfera della chiesa e anche nelle situazioni più tristi ha sempre trovato una vitalità. Certe volte, negli ultimi tempi, piangeva rivedendo certe fotografie. Questa è Sabine Weiss! Un’immagine famosissima è L’uomo che corre (Hugh), scattata a Parigi nel 1953, una foto che si presta a moltissime interpretazioni a partire dall’idea di libertà. Nella sezione dedicata a Parigi c’è anche la foto dei due ragazzini che riempiono il secchio d’acqua dalla fontanella di Rue des-Terres-au Curé, un’area molto povera della città. Lei era lì per il reportage sui Preti Operai pubblicato dal settimanale italiano Le Ore nel 1954, di cui vediamo esposte anche le pagine originali, ma fotografava tutto quello che la colpiva anche se non era strettamente legato al servizio fotografico. La foto di questi ragazzini, infatti, non è nel reportage. Non c’è mai separazione tra un lavoro commissionato e quello personale, però di fatto i suoi scatti più intensi sono per lo più quelli personali.