«La trattativa Stato-mafia? Non so, non esiste, e poi la mafia è più forte dello Stato no?». Quello che Franco Maresco ci fa vedere nel suo magnifico Belluscone – Una storia siciliana sparisce dalle inquadrature di Sabina Guzzanti. Eppure dei personaggi che incontriamo nel film del regista siciliano molti ritornano in questo La trattativa, il cui sottotitolo potrebbe essere lo stesso. O quasi.

Ritroviamo infatti il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, ex braccio destro del boss Riccobono, testimone chiave nel processo sulla trattativa Stato-mafia, con la stessa maschera Anonymous indossata per apparire davanti alle telecamere di Maresco. È lui a avere incontrato per ultimo Borsellino ricordando lo smarrimento del giudice dopo una riunione con persone dei servizi o anche prelati. I nomi dei giudici uccisi dalla mafia nel ’92, Falcone e Borsellino, e quello del senatore Delll’Utri, lo stalliere di Arcore Mangano, «testa di ponte» tra la Sicilia e la Lombardia dove negli anni Novanta la mafia si espande, che nelle parole del giudice Borsellino quando dice «cavalli» vuol dire in realtà «droga».

Naturalmente troviamo lui, Silvio Berlusconi, che con la discesa in politica sana quel vuoto di riferimenti politici per i mafiosi, aperto agli inizi degli anni Novanta con la caduta della Prima repubblica.
Cosa rimane allora fuori campo nella Trattativa? Gli italiani, coloro che quei poteri occulti o «in chiaro», le istituzioni o il crimine, sostengono o guardano da lontano o, appunto, «non esistono» come la trattativa Stato-mafia. E che però Berlusconi e altri prima lo hanno votato. Non è però il paesaggio italiano che interessa Guzzanti, quanto i luoghi della politica, in senso ampio coloro che hanno manovrato o ne sono stati esecutori. Perché nella politica, che quel paesaggio per certi versi determina, cerca le cause e gli effetti, è la politica che deve fare chiarezza, e scegliere dove collocarsi e i tribunali non possono essere la soluzione, non la sola almeno.

Perciò la regista ripercorre quei vent’anni e più, dal maxiprocesso mafioso del 1992 alla guerra contro lo stato della mafia, il tritolo a Capaci, dove muore Falcone con la moglie e la scorta, e prima ancora l’omicidio di Salvo Lima, in piena campagna elettorale, l’uccisione di Borsellino, le bombe in tutta Italia, Milano, Roma. Fino a oggi, al processo per la trattativa Stato-mafia, al coinvolgimento delle istituzioni, dei politici come l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino o i gli ex capi dei Ros Subrani e Mori, il ruolo dei presidente della Repubblica Napolitano, e prima di Scalfaro. Ma anche di figure come il giudice Caselli mostrato qui in chiave abbastanza ambigua, come qualcuno che evita responsabilità. I boss, Riina e Provenzano, l’ex sindaco di Palermo Ciancimino.E, ovviamente, la nascita di Forza Italia, il nuovo partito che dopo la caduta della Prima Repubblica si presenta come l’interlocutore necessario per ottenere le garanzie che premono, a cominciare dall’abrogazione del 41 bis.
Pure se oggi un altro boss pentito arriva a dire che uno come Berlusconi forse non lo avrebbero affiliato, troppo poco serio avere un amico che fa il bunga bunga.

La prima scena mostra gli esami di teologia di Gaspare Spatuzza, il pentito che autoaccusandosi di essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Borsellino, smantella a distanza di quindici anni le conclusioni di magistrati e giudici. La docente più severa della commissione gli chiede di parlare del concetto di grazia nelle religioni,e la macchina da presa si allarga per rivelarci la messinscena. La stessa Sabina Guzzanti ci dice cosa sta facendo con un gruppo di lavoratori dello spettacolo: un’invenzione della verità, ma lo sappiamo, la verità messa in scena è sempre quella più vera.

Guzzanti mescola archivi, giornalismo tv, la grafica santoriana, ricostruzioni in studio con gli attori (tra gli altri Ninni Bruschetta e Enzo Lombardo), riferimenti espliciti al cinema neorealista alla Francesco Rosi, citato con un frammento di Salvatore Giuliano. Riprende il suo vecchio e storico Berlusconi, in coppia sfavillante con Dell’Utri, l’uomo a cui si deve Forza Italia, e collega con precisione documentata ogni frammento di questa Storia.
Come molti altri disturbatori della quiete pubblica, Guzzanti venne bandita dalla televisione dell’era berlusconiana, e però proprio perché comica degli effetti mediatici conosce dosaggi e equilibri sottili.

Sa anche come tutto si può digerire, omologare, l’intervista a un pentito o una fiction sulla mafia. Alla retorica del complotto perciò oppone l’indagine lineare, e per questo molto forte, e fa di noi, il pubblico, il controcampo della politica a cui chiedere la risposta che evita. Il rischio è che sia un processo assolutorio – la colpa è della «casta» (però votata) – anche se non sembra la «rivendicazione» che cerca Guzzanti.. Lei ci offre gli strumenti, sta a noi scegliere come utilizzarli