Il Festival Aperto di Reggio Emilia si colloca proprio sulla soglia tra memoria e ricerca, dove, come recita la presentazione di Aliae Lunae, la rassegna del 2019 appena conclusa, la diversità fa come l’attrito e dunque consente il movimento. I progetti protagonisti (oltre due mesi tra suono, danza, teatro ed installazioni), declinando vari linguaggi a seconda di punti di osservazione plurali e dissonanti, hanno portato una prospettiva diversa, uno sguardo non allineato alla contemporaneità, così spesso assediata dall’ovvio.

SI CHIUDE il sipario con Two, l’incontro tra Alva Noto e Ryuichi Sakamoto, già in scena all’Auditorium di Roma ed ora sul palco del Teatro Valli. L’elettronica autoptica, stilizzata e glaciale di Carsten Nicolai in dialogo con l’Estremo Oriente reale e metaforico dell’autore di Merry Christmas Mr. Lawrence. Sequenze sobrie come architetture funzionaliste, beats che covano sotto un ghiaccio apparentemente statico ma in realtà in perenne, sotterraneo movimento.

A rispondere a questo alfabeto runico del futuro il pianoforte (spesso trattato o preparato) di Sakamoto, anche lui a volte intento ad armeggiare con dispositivi e laptop. Complici dei visuals asciutti e perfetti, il concerto fa pensare ad una versione galattica di uno spettacolo Son et Lumière, con brividi e didascalie equamente presenti. L’incipit ci porta in un giardino giapponese dove uno Shakuhachi intona una sorta di mantra buddhista: affiorano perfino memorie della «Danza della fata Confetto», dallo Schiaccianoci di Tchaicovsky. Il rumore diventa poesia, in un gioco di specchi che allontanano e deviano sempre la prospettiva con una sottile forza magnetica. Come diceva proprio John Cage: «Non c’è nulla da dire, e lo sto dicendo».

SULLA SCIA di Brian Eno e William Basinski i due musicisti non fanno altro che scrivere note a margine di una ineluttabile deriva: il ritmo è ridotto a pulviscolo, a purissime, minuscole particelle di silicio che non lasciano scampo, ma vuoto siderale e spazio, pagine bianche sporcate da una cenere glitch e da un pugno di note di pianoforte. Se la voce delle macchine di Alva Noto si conferma unica e magistrale, nella sua estetica nitida e gentilmente implacabile, da Sakamoto invece ci saremmo aspettati qualche guizzo in più. La classe di entrambi è indiscutibile, le textures delineate con arte e sapienza, mancano forse vertigini in questo viaggio nel mondo della penombra.

O forse è solo la volontà dei due di cercare di avvicinarsi, secondo i dettami Zen, al suono di una mano sola. Le melodie del pianoforte sono campiture di colore, come in un quadro di Rothko, non ci sono un canto o una linea melodica da ricordare, solo una indicibile malinconia da folk dell’Antropocene. Del resto il mondo finisce con un pianto, non con uno schianto, scriveva T.S. Eliot. Un approccio forse talvolta troppo estetizzante non ha comunque scalfito la resa di un concerto da sold out. Ed essendo Leopardi il mentore di questa edizione, il naufragar è stato dolce, anche in questo mare.