Se Ryley Walker è un hipster di certo non lo sembra. Non si muove con la flemma consapevole del modaiolo, non ne ha l’aplomb e le movenze. Sale sul palchetto del Monk all’aperto con una camicia scozzese a quadri, bofonchia la sua emozione per essere a Roma, commenta perplesso le urla che arrivano da un campo di calcetto limitrofo e che quasi superano il livello del suo microfono e poi inizia a suonare. È tutto solo in questo minitour italiano: lui, la voce e la chitarra. È da quest’ultima che parte la costruzione del suo piccolo castello di giochi nel club capitolino. Un castello mirabile e sontuoso, pur nell’economia di mezzi utilizzati. L’intro chitarristica alterna arpeggi e giochi sugli armonici con un’abilità che trasforma il suono in una griglia portentosa. Nulla di barocco però nel chitarrismo di questo songwriter dell’Illinois che è in Europa a presentare i frutti del terzo impegno discografico, Golden Sings That Have Been Sung, dopo i celebrati fasti di All Kinds Of You del 2014 e Primrose Green del 2015.

Walker lavora sulla sei corde utilizzando pochissimi effetti e giostrando il manico con l’abilità di un Richard Thompson. Arpeggi aggrovigliati bene, ostinati che fanno sentire anche lo sporco, luminescenze armoniche sorprendenti. Dopo aver macinato uno dei pezzi più belli del nuovo album, The Great and Undecided, il suo viso e la sua postura, che lo fanno assomigliare ora a Joaquim Phoenix e ora a Jack Black e che però abitano il palco in una sorta di equilibrio instabile, si illuminano per un attimo. Walker annuncia una cover di Van Morrison, un modo per quadrare il cerchio delle sue ispirazioni che sono tutte molto british e che al soulman irlandese potrebbero accostare anche John Martyn, Donovan e il già citato leader dei Fairport Convention. Il pezzo di Morrison che ha scelto è la magnifica Fair Play, da Veedon Fleece del 1974…

È proprio qui però – nell’omaggio più sentito – che la tensione del concerto si allenta. Walker esagera i toni della sua voce che si fatica a riconoscere mentre sciorina un testo bellissimo, biascicando le parole, quasi facesse volutamente la parodia e irridesse il suo nume tutelare. Lo salvano le liriche della canzone – quelle che restano comprensibili – e che recitano così: «Dimmi di Poe, Oscar Wilde e Thoreau/Lascia che la tua mezzanotte e il tuo giorno si trasformino in amore per la vita/si tratta di una linea molto sottile/ma tu hai la mente di un bimbo/e puoi continuare». Per ritrovare la concentrazione e magari riflettere sull’Italia «caraibica» che si è trovato ad attraversare in questi giorni (un concerto sulle dune a Marina di Ravenna e il giardino del Monk riempito di sedie a sdraio…), Ryley Walker cerca di nuovo la via strumentale.

Nel disco nuovo non ne ha inserito nessuno, sono tutti pezzi in cui spicca la sua voce aguzza (ma non aguzza quanto quella di Morrison) ad intarsiare racconti introspettivi e paesaggi plumbei e un bel corredo di partners strumentali ad intavolare una tavolozza timbrica quasi del tutto acustica (fatta eccezione per qualche felpata zampata chitarristica). Nel tour promozionale invece arrivano questi «galleggianti» chitarristici, nei quali sguazza come un bambino felice. Anche The Roundabout, sempre dall’ultima fatica, viene introdotto da una mirabile escursione alla sei corde, laddove il ventiseienne di Rockford riesce a disegnare con un solo strumento un pannello che, nell’album, viene affidato a due chitarre sovraincise e a una tastiera.

A questo punto è tornata in pieno la magia: Funny Thing She Said è l’ultima canzone in scaletta; uno studio inflessibile dei problemi e delle magagne di ogni separazione sentimentale. Un brano impostato su una surplace ritmica molto sonnolenta, capace di richiamare a tratti il David Sylvian degli album solisti di fine anni ottanta o anche l’euforia umida dei migliori lavori di Iron & Wine. Il pubblico sulle sdraio applaude convinto, poco più in là la partitella di calcetto è finita da tempo, Ryley Walker non va oltre i 50 minuti di performance, non saluta e non concede bis, ma quel che ci ha regalato nel frattempo è già abbastanza.