Nessuna sorpresa se nella patria di Agatha Christie, gli scrittori di mystery, anzi le scrittrici, sono presi sul serio. Sarà un caso che due tra le più celebri signore del crimine di carta siano state sedute alla Camera dei Lord, Ruth Rendell tra le fila dei laburisti e P.D. James tra i conservatori? Scomparse entrambe da poco, neppure il compassato understatement inglese è mai riuscito a nascondere l’amichevole ma tenace rivalità che, con i tanti libri tradotti in mezzo mondo, le ha contrapposte per tutta la vita a colpi di milioni di copie. Nonostante le diverse predilezioni nello scaffale del giallo, sempre in bilico tra indagine e mistero, suspense e enigma, è anche merito loro se abbiamo l’impressione di conoscere l’Inghilterra degli ultimi cinquant’anni e i suoi clamorosi cambiamenti sociali. Il primo tempo dell’attività di Ruth Rendell è dominato dalla figura debordante dell’ispettore capo Reginald Wexford e del suo braccio destro Michael Burden, anche lui insofferente nei confronti della bevanda nazionale: «Qualche volta vorrei che fossimo in Messico, almeno potremmo tenere una cassa di liquori in ufficio. Questo eterno tè mi fa vomitare».

La singolare coppia di poliziotti agisce nell’immaginaria Kingsmarkham, nel cuore del Sussex, la tipica cittadina inglese dove la gente vive un’esistenza apparentemente tranquilla fino a che il delitto non scompagina la routine quotidiana. Sono oltre una ventina i suoi police procedural, a partire da Lettere mortali del 1964, uno dei capitoli più rappresentativi e impeccabili del giallo inglese. L’insofferenza nei confronti della paraletteratura seriale e delle regole del giallo la inducono quasi subito a affrontare l’universo della suspense psicologica. Nei romanzi in cui entra in crisi il paradigma indiziario della detective story classica si naviga a vista nella fragile precarietà del vissuto, nella inesauribile esplorazione dei comportamenti. Ma quando il rischio della formula minaccia anche questo secondo tempo, non esita a firmare con lo pseudonimo di Barbara Vine i suoi romanzi più stravaganti e disperati.

La popolarità arriva con la televisione, che dopo qualche tv movie, le dedica nel 1987 la serie The Ruth Rendell Mysteries, destinata a durare fino alle soglie del nuovo millennio, adattando romanzi e racconti della giallista inglese, a partire da quelli con Wexford e Burden, che hanno i volti di George Baker e Christopher Ravenscroft. Claude Chabrol s’imbatte in La morte non sa leggere alla fine degli anni settanta, ma gli sembra che i personaggi delle due ragazze siano troppo sgradevoli, troppo rozzi. Solo più tardi apprezza la successiva maturazione della sua scrittura e comincia a pensare un adattamento che tenga conto del nuovo livello raggiunto dalla narratrice. Il buio nella mente (1995) – implacabile come un fatto di cronaca, in cui una domestica analfabeta e una squinternata postina sterminano la famiglia borghese dei Lelièvre – nasce da qui, dalla volontà di sbarazzarsi dell’intreccio per costruire tutto il film sui personaggi, lavorando sui particolari, mettendo insieme sensazioni, emozioni, parole, gesti, movimenti, suoni.

Facendo insomma del cinema, secondo la lezione di Hitchcock e di Lang, che ha da tempo metabolizzato nella scansione infallibile degli spazi e dei tempi del racconto. Basterebbe pensare all’uso folgorante del totale dall’alto quando le bravissime Sandrine Bonnaire e Isabelle Huppert spiano dalla balconata la famiglia seduta sul divano. Se il ruolo del Don Giovanni di Mozart alla televisione c’è già nel libro, il rapporto tra la colf e la tv-spazzatura va dall’abbrutimento alla rimozione in grado, quand’è a tutto volume, di spegnere il mondo. Nei confronti di un film così esplicito e sfuggente è fin troppo facile andare a caccia di metafore e sottotesti, perdendo di vista la forza demiurgica dell’immagine, la presenza incubica della grande casa borghese affacciata sull’abisso che rinnova e decanta l’immaginario gotico.

Quando Pedro Almodovar legge il romanzo Carne viva che è all’origine di Carne tremula (1997) sono ormai lontani gli inizi eccentrici e oltraggiosi sintonizzati sulla movida madrilena e non sono ancora arrivati i tempi della consacrazione internazionale di Tutto su mia madre. Grande film di transizione, Carne tremula riprende soltanto il primo capitolo del romanzo, in cui dall’auto due poliziotti vedono a una finestra un giovane che sta minacciando una ragazza con la pistola. Affascinato dalla situazione, lascia perdere il resto e s’inventa la storia basata sui rapporti impliciti tra i personaggi della scena primaria, i loro possibili sviluppi.

Se nella tragica notte del decreto franchista del ’70 il protagonista viene alla luce in un autobus, nel ’96 quando la Spagna non ha più paura suo figlio nasce nel taxi imbottigliato nel festante traffico cittadino. Uscito di prigione, Victor è deciso a diventare «il più grande scopatore del mondo» per conquistare Elena, che nel frattempo ha sposato l’ex poliziotto paraplegico divenuto una star del basket in carrozzella. Il personaggio vibrante di passione è Clara, una strepitosa Angela Molina, ma la scena più magica, insieme più audace e più innocente, è l’intreccio in forma di cuore dei corpi di Victor e di Elena, dove maschile e femminile non si possono più distinguere. Claude Miller – che Truffaut con cui ha lavorato a lungo chiamava «l’Hitchcock dei sentimenti» – trova i suoi soggetti in biblioteca, rimanendo sempre fedele all’angoscia identitaria dell’ebreo errante, alla predilezione per le zone d’ombra della vita, le vibrazioni segrete della personalità, i sensi di colpa.

L’incontro con la scrittrice avviene per Betty Fisher (2001), tratto molto liberamente da L’albero delle mani. Sin dal flashback iniziale in cui in treno la madre in un raptus che interrompe l’apparente serenità del viaggio ferisce la mano della figlia con le forbici che ha in borsa, il rapporto tra le due si muove in un clima di apprensione. Quando anni dopo si ritrovano, prevale la spirale di sgradevole incertezza in cui non è facile distinguere la frustrazione di una presenza ingombrante e la crudeltà dell’egoismo isterico della madre. Il film deve la sua vitalità al fondo oscuro di minaccia che coincide con la spiazzante obbligatorietà dei rapporti parentali. Il regista, di fronte al nucleo più misterioso del libro – la vicinanza/lontananza tra due persone estranee l’una all’altra eppure unite da un filo invisibile che blocca la tentazione di fuggire – più che riproporlo nel suo percorso drammatico intende decostuirlo, smontarlo, andando alla ricerca delle sue chiavi più segrete. Sembrerà strano, ma il momento in cui il film finisce con l’essere più vicino all’universo perturbato della narratrice inglese è quando il disturbo mentale della madre, un’intensa Nicole Garcia, si rivela come l’attitudine catastrofica, quasi un parafulmine che attira le disgrazie o addirittura le provoca, di chi riesce a trasformare il mondo della sicurezza familiare nell’incubo più sconvolgente e esplosivo.