Quando a metà degli anni trenta è a Hollywood giovanissima messenger girl che corre qua e là negli Studios della Metro Goldwin Meyer, raccoglie in un libretto rilegato a mano gli «Autographs of Movie Stars»: Dolores Del Rio, Clark Gable, Shirley Temple-Riccioli d’oro (che firma con scrittura tremolante e a stampatello da seienne quale era) ma ci mette pure tutti i titoli dei film che vede e, per ciascuno, il suo ranking (Spencer Tracey, Capitani coraggiosi, straordinario, quattro stelle).
La stessa intraprendenza ha quando, facendosi regalare dai genitori una bicicletta, a diciassette anni comunica (non chiede, comunica) di partire per New York dove nel 1939 si sta aprendo, nel Queens a Flushing Meadows, l’evento principe, la World’s Fair, che accoglieva i visitatori col motto «Dawn of a new day». Da sola, macina duemila miglia in bicicletta, coast to coast, dormendo negli ostelli di San Francisco, Washington D.C., Chicago, Philadelphia e, evidentemente, fotografa tutto (preferibilmente includendo l’amata bici).
Lei è Ruth Orkin (1921 -1985) dunque, ultranota per l’iconica American Girl in Italy, ed a lei è dedicata un’ampia retrospettiva a cura di Anne Morin e voluta da Barbara Guidi (Ruth Orkin. Leggenda della fotografia, fino al 2 maggio, Galleria Civica, Bassano del Grappa).

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L’INFANZIA PASSATA ad accompagnare la madre Mary Ruby, diva del muto, alle premières e ai funerali delle celebrità, le lascia un segno indelebile: avere il cinema nel sangue ma in quanto donna non poterne realmente far parte – almeno nei ruoli apicali – le dà slancio per fotografare sempre di più. E ricorrendo a una certa serialità delle immagini, fa comunque cinema. Celebri i «cicli» come quello di Jimmy che racconta una storia in cui le variazioni della mimica facciale dei ragazzini che giocano o ascoltano o si arrabbiano o ridono cambia in ogni inquadratura – e viene in mente Muybridge, pioniere della fotografia, che mostra allo zoopraxiscopio un cavallo in corsa. Alla fine è una storia, una storia per immagini.
Un’altra serie – I giocatori di carte – Steichen la vuole quando, alla guida del Dipartimento fotografico del Moma, organizza The family of men, leggendaria esposizione del 1955, definita «il Grand Canyon dell’umanità»: Ruth Orkin quindi con Dorothea Lange e la sua Damaged girl, con Henry Cartier Bresson e con altri 273 fotografi da 68 paesi diversi.
La svolta, negli anni quaranta, avviene quando a New York, entra nella Photo League: è qui che incontra, fra gli altri, Berenice Abbott, Paul Strand e Margareth Bourke-White. Lei teneva un corso su Atget. Ed è sempre qui che conosce Morris Engels, suo futuro marito.
Gli Engels cambieranno casa tre volte. Dall’appartamento di Horatio Street nel West Village – dove ora scorre verdeggiante la High Line – lei fotografa ragazzi che si tuffano nell’Hudson (uno – e anche questa è una piccola serie – lo coglie quando sta in piedi in cima all’edificio, poi quando cade nel vuoto e, infine, quando si tuffa in acqua): biciclette buttate in terra, a torso nudo fanno la loro piccola vacanza al Gansevoort Pier, stesi al sole mangiano un gelato, insomma, secondo Otis Redding, perdono tempo sul pontile.

IN COPPIA, realizzano un film, lei dietro le quinte ma la sua mano è evidentissima nelle inquadrature. The little fugitive – visibile in mostra – altro non è che la giornata del piccolo Joey, circa otto anni, un fratello maggiore che gli fa uno scherzo e lui che decide di scappare da Brooklyn a Coney Island dove passa un giorno entusiasmante. Si gestisce in libertà trovando il modo di concretizzare il sogno di diventare cowboy (ha sempre una pistola giocattolo in mano). Raccoglie per pochi cents le bottiglie di vetro lasciate dai bagnanti e con quei soldi si paga più e più volte il giro con il pony. Intanto il fratello lo cerca, scrive col gessetto messaggi ovunque lungo la spiaggia. Alla fine, si ritrovano ma il fratello minore ha passato una giornata memorabile. Il film si aggiudica il Leone d’argento alla Mostra di Venezia del 1953 e può contare su parole di tributo di Truffaut che lo considerava un riferimento importante per la nascita della Nouvelle Vague.

ACCANTO A IMMAGINI di vita quotidiana della sua amata New York – venditori di frutta, materassi vecchi per strada, ragazze a passeggio, concorsi con cani e di conseguenza esilaranti e simili padroni, gente in attesa alla Penn Station, visitatori di mostre (al Metropolitan Woody Allen per Orkin si mette ironicamente in posa davanti a Bronzino e a Batoni) – scorre il mondo della cultura alta così come quello glamour delle celebrities. E lei non rinuncia mai.

VA A TANGLEWOOD al seguito della Boston Symphony Orchestra, conosce Leonard Bernstein e Aaron Copland che lì insegna composizione. Ritratti di Bernstein a torso nudo che fuma in pausa ne fa tanti e riesce a riprendere il backstage della prima del Peter Grimes di Britten.
Ancora con Citizen Kane in testa fotografa Orson Welles a Venezia, in maschera a Palazzo Labia, dove il conte Bestegui, nel 1951, organizza Le bal oriental, con mille persone, levrieri, Churchill e i Duchi di Windsor in persona, Dalì e Christian Dior. Con lei, a immortalare tutto questo, Robert Capa e Cecil Beaton. Indimenticabile infine la piccola Tirza, sospesa in bilico fra due lavandini nei bagni comuni del kibbutz dove vive e Dorit, un’altra giovanissima abitante della comunità. Entrambe sudate e sdrucite.