Che il «Russiagate» fosse un bluff costruito a uso dello scontro politico interno agli Usa è stato chiaro sin dall’inizio senza dover attendere le conclusioni della «commissione Mueller», che ne ha decretato la completa inconsistenza.

MA SUL CASO dei presunti legami tra Putin e Trump hanno tentato di costruire la propria fortuna giornalisti senza scrupoli. Come Craig Unger, che nel monumentale tomo Casa di Trump, casa di Putin. La storia segreta di Donald Trump e della mafia russa (La Nave di Teseo, pp.569, euro 23) promette di svelare la trama del Russiagate. La congiura tra i due presidenti, secondo l’autore, sarebbe radicata addirittura nei lontani anni ’70 quando Putin era solo il campione di judo e Trump un corsaro dell’immobiliare ai Queens.

Sin da subito il lettore si accorge di avere in mano un’opera che sfugge ai principi basilari non diciamo dell’indagine rigorosa, ma persino della minima professionalità. Si scopre così che Putin sarebbe figlio «di un’operaia e di un marinaio» mentre notoriamente il padre era operaio e la madre portinaia. Ma i grossolani errori fattuali di cui è intessuto il libro sono solo le fondamenta delle inconsistenti tesi di Unger.

SECONDO l’autore chi legava Trump a Putin non sarebbe stato altri che Semen Mohylevyc, primula rossa della mafia ucraina. Trump in tempi diversi avrebbe venduto o affittato al mafioso alcuni appartamenti sulle Trump Tower mentre Putin sarebbe colpevole della scarcerazione di Mohylevyc nel 2009 dopo un anno e mezzo di detenzione preventiva in Russia.

Tutte qui le «relazioni pericolose» con il bandito ucraino? Purtroppo sì. E per i rapporti diretti tra Putin e Trump, cosa ci svela Unger? Nulla. Trump si recò a Mosca nel 1986 e poi 1997 ma non incontrò Putin e non avrebbe avuto ragione di farlo perché quest’ultimo era solo il ministro degli esteri dell’allora sindaco di Leningrado Sobcyak. Una terza volta infine, il tycoon atterrò a Mosca nel 2006 per presentare Miss Universo. E qui Trump invitò effettivamente il capo del Cremlino alla manifestazione ma questi non si fece vedere.

IL RUSSIAGATE, trasposto nelle 569 pagine di Unger non regge alla più superficiale disamina e il libro volge impietosamente e noiosamente all’epilogo senza alimentare nessun coinvolgimento né fornire un suggestivo plot narrativo. Il «complotto» nella trama di Unger si arresta al complottismo.

Eppure, solo leggendo le trascrizioni delle telefonate tra Eltsin e Clinton «desecretate» proprio recentemente, uno squarcio interessante sulla storia delle recenti relazioni tra Russia e Usa ce la fornirebbe. Ma tutto ciò porterebbe «troppo vicino» forse, laddove ormai alla ragnatela di complesse dinamiche politiche nelle inchieste ci si accontenta di svelare l’intrigo, quando intrigo c’è.

Il libro di Unger non appare perciò destinato a finire nelle bibliografie di riferimento per lo studio delle relazioni Usa-Russia di questo scorcio di secolo.