Stephen Bannon, l’ex stratega del presidente Trump, ora caduto in completa disgrazia politica, è stato convocato dal consigliere speciale, Robert Mueller, per testimoniare davanti a un gran giurì sui possibili legami tra i soci di Trump e la Russia, stando a quanto dice il New York Times.

È LA PRIMA VOLTA che Mueller usa un mandato del gran giurì per cercare informazioni da un membro della cerchia più stretta di Trump. Potrebbe essere una tattica negoziale: probabilmente Mueller permetterà a Bannon di non comparire di fronte al gran giurì se accetterà di essere interrogato dal suo team, in un contesto meno formale degli uffici del consiglio speciale sul «Russiagate».

Non è chiaro perché questa decisione sia stata presa proprio nei confronti dell’ex guru di Trump. Certo è che non potrebbe esserci momento migliore per interrogarlo: nelle ultime settimane è stato disconosciuto dalla sua ex creatura e attuale presidente e – a causa della pubblicazione del libro «Fire and Fury», su e contro Trump, del giornalista Wolff (a cui Bannon ha partecipato) – ha perso il sostegno anche dei miliardari dell’ultradestra che hanno portato alle sue «volontarie» dimissioni dal portale di notizie Breitbart, che dirigeva.

BANNON ha probabilmente più voglia di collaborare con Mueller, di parlare degli odiati figli e del genero di Trump (corrente opposta alla sua) e del team della Casa bianca, che non è quello che Bannon aveva immaginato: ovvero uno strumento con cui arrivare a una sovversione del sistema globale, come pianificava da anni e di cui parlava nelle interviste e nei suoi documentari.

Mentre andiamo in stampa, dovrebbe iniziare l’audizione di Bannon alla commissione intelligence della Camera, a porte chiuse: dovrebbe riguardare in particolare l’incontro del 9 giugno 2016 tra Don jr e alcuni emissari russi vicini al Cremlino che avrebbero dovuto fornire materiale compromettente su Hillary Clinton, esattamente l’episodio di cui ha parlato in «Fire and Fury».

L’amministrazione Trump va avanti come se il Russiagate non esistesse e resta concentrata nello smantellare sistematicamente l’opera di Obama. Galvanizzati dal successo ottenuto con la riforma fiscale, Trump e i repubblicani sono ora concentrati nel vanificare i regolamenti imposti alle banche dopo la crisi finanziaria del 2008. Permettendo a centinaia di banche piccole di evitare certi controlli federali, il disegno di legge rivedrebbe il Dodd-Frank Act del 2010, definito da Trump «un disastro».

Il disegno di legge dovrebbe essere presentato al Senato il mese prossimo e, nelle intenzioni, aiutare l’industria finanziaria Usa allentando molte regole post-crisi e obblighi normativi (come i test che misurano la capacità di resistere a una grave recessione economica) a cui le banche adesso devono sottostare, in particolare le migliaia di banche piccole e medie.

SECONDO LA DODD-FRANK, la normativa vigente, le banche con un patrimonio di almeno 50 miliardi di dollari sono considerate «istituzioni finanziarie di importanza sistemica» e pertanto disciplinate da norme più severe. La legge alzerebbe la soglia agli istituti con un patrimonio di almeno 250 miliardi, lasciando meno di 10 grandi banche negli Stati uniti soggette a una supervisione più severa.

NON SOLO IL GOP partecipa a questa operazione: il progetto piace anche ad alcuni democratici, mentre i dem progressisti, che avvertono che la legge restituirebbe Wall Street al suo passato più spericolato, si stanno mobilitando per farlo naufragare, anche se questo significherà attaccare i colleghi di partito. La più attiva è la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren: «Il disegno di legge aumenta il rischio di un altro salvataggio da parte dei contribuenti e continuerò a sfidarne i sostenitori di entrambe le parti e a spiegare che stanno dalla parte delle grandi banche invece che dei lavoratori».