C’era una volta l’egemonia americana in Medio Oriente. Come tanti altri tasselli del decennio unipolare, pur non contribuendo granché a rendere il mondo migliore, almeno lo rendeva più semplice. La Primavera araba e il caos che ne è seguito ci hanno portato dentro un’era più mutevole e complessa, in cui scegliere il proprio “campo” con i criteri del passato può portare a semplificazioni e grossolani errori: l’era del Medio Oriente multipolare.

Nuovi protagonisti si sono affacciati prepotentemente. Abbiamo visto salire alla ribalta alcune potenze regionali un tempo più gregarie e passive, come Emirati e Turchia, che hanno affiancato vecchi (e un po’ usurati) attori come Arabia saudita e Iran. Soprattutto, abbiamo visto il ritorno in grande stile di un grande protagonista del passato: la Russia.

A partire dall’intervento militare in Siria del 2015 il dibattito si è concentrato sul significato di questo ritorno e su quanto la Russia possa realmente aspirare a diventare il nuovo king-maker del Medio Oriente. Fin qui, infatti, non si può negare che Mosca abbia avuto un certo successo.

In poco più di tre anni, ha stabilizzato il potere del proprio alleato Assad; è diventata un interlocutore imprescindibile su plurimi fronti di crisi, dalla Libia allo Yemen; ha attirato vicino alla propria orbita un paese chiave della Nato come la Turchia (che nel 2015 l’aveva accolta abbattendole un caccia); ha ristabilito un rapporto diretto e privilegiato con Israele, riuscendo a bilanciarne gli interessi in Siria; e ha di fatto creato un nuovo cartello petrolifero, quell’Opec Plus che oggi controlla insieme all’Arabia saudita.

Risultati ottenuti con grande disinvoltura tattica, riuscendo a mostrarsi controparte affidabile ed efficace a tutti gli interlocutori nonostante le loro mutue divergenze. Ma possono questi successi portare Mosca sul trono di egemone che fu degli Usa? Per rispondere bisogna prima di tutto capire la chiave del successo dei russi in Medio Oriente, comparandola con il ruolo avuto negli ultimi due decenni dagli americani.

La differenza più profonda è prima di tutto negli intenti: il ruolo degli americani (e, seppur meno forte, quello degli europei) è stato infatti «normativo» – secondo gli apologeti – o «neocoloniale» – secondo i critici. Agiva, in sintesi, secondo la visione ultima di un Medio Oriente riformato secondo i principi politici ed economici liberali – e, più recentemente, neoliberali. Facendolo, tendeva ovviamente a dare priorità ai propri interessi politico-economici, ma rimaneva pur sempre un intervento «trasformativo», volto quindi a una radicale, seppur progressiva, modifica dello status quo.

Ciò ha sempre avuto una profonda ripercussione sulla «qualità» delle alleanze dell’Occidente nella regione. I regimi autoritari locali hanno spesso dovuto accettare controvoglia di imbellettarsi con riforme democratiche e multipartitismi cosmetici in cambio di quella promessa di benessere economico liberale che, con la fine delle grandi ideologie, rappresentava per tante autocrazie stantie l’unica speranza di sopravvivenza. Un rapporto da sempre squilibrato e ambiguo, caratterizzato prepotentemente dal senso di superiorità degli occidentali, spesso inferiore e solo a quello di inferiorità delle loro controparti locali.

Voci di palazzo raccontarono lo shock che percorse i corridoi del potere saudita la notte in cui la Casa bianca «scaricò» Mubarak dopo soli pochi giorni di proteste. Quella notte in molti realizzarono definitivamente di essere alleati di second’ordine, tali solo fino a quando non divenuti troppo imbarazzanti.

Ma qualcosa è cambiato da quando Mosca è tornata. Perché la Russia di Putin, nonostante le speranze di qualche nostalgico, non è l’Unione sovietica. Non ha nessun grande disegno progressivo e riformatore sotteso a un’ideologia omogenea. No, la Russia di Putin è riformatrice solo nel contrasto al vecchio sistema unipolare, ma è conservatrice in tutto il resto, a iniziare dalla difesa perentoria dello status quo autoritario. Una delle chiavi del successo del grande ritorno russo è proprio in questo: saper interloquire «alla pari» con tutti, senza bisogno di imbellettamenti e inutili discorsi su diritti umani e democrazia.

Quando il giornalista Khashoggi scomparve nel consolato saudita di Istanbul, Trump fu costretto a lunghi salti mortali, a umiliare pubblicamente i suoi amici sauditi con richieste di indagini e giustificazioni senza comunque rinunciare a un solo contratto di armamenti per Riyadh. Putin, al contrario, non perse nemmeno un secondo in pantomime scenografiche; alla prima occasione pubblica batté il cinque al principe Bin Salman, senza degnare la vicenda del giornalista ucciso di una sola parola.

Mosca capisce i suoi interlocutori locali come gli Usa probabilmente non sono mai stati in grado di fare. Non si presenta come portatrice di una civiltà superiore da esportare, bensì da primus inter pares: un’autocrazia più solida e potente pronta a comprendere i bisogni delle «sorelle minori» e a sostenerle. Ed è così che, lontano dai microfoni, non è difficile trovare rappresentanti di regimi alleati dell’Occidente che dei russi non riescono a reprimere un moto di stima: «No, non posso dire che ci piace quello che fanno. Ma ci piace come lo fanno».

Ma se questo approccio ha dimostrato in pochi anni un’indubbia superiorità di “stile” rispetto a quello Occidentale, la «nuova Russia» di Putin ha ancora almeno una cosa in comune con l’orso sovietico: i piedi d’argilla dell’economia. Se infatti Mosca può offrire comprensione e sostegno militare senza i fastidiosi vincoli occidentali, non può però offrire quella prosperità economica che le giovani popolazioni arabe ormai si aspettano.

L’economia russa resta debole e squilibrata, con scarsa capacità di proiezione internazionale al di fuori degli idrocarburi. No, nonostante tutta la sua saggezza tattica e le grandi aspettative instillate negli autocrati locali, la nuova Russia dovrà accontentarsi a giocare il ruolo di co-protagonista, insieme ad altre potenze regionali emergenti e quel che resta dell’influenza occidentale.

Niente nuove egemonie all’orizzonte per il malconcio Medio Oriente, quindi, almeno fin quando un’altra potenza con sufficiente potere economico e, chissà, anche il giusto stile autoritario non si affacci finalmente sulla regione. Chissà se a Pechino qualcuno non abbia già cominciato a farci un pensiero.

*Ricercatore Ispi