Barack Obama ha lasciato San Pietroburgo e il G20 senza nuove truppe per l’attacco contro la Siria. Una chiara sconfitta politica, che pone in una pessima luce colui che aveva sollevato speranze di pace in tutto il pianeta quando, cinque anni fa, fu eletto alla Casa Bianca per succedere a George W. Bush dopo le disastrose campagne in Afghanistan e Iraq. La prossima settimana arriverà il verdetto del Congresso americano sull’attacco alla Siria, con la possibilità surreale che la destra americana si tolga lo sfizio di far perdere la faccia ad Obama togliendogli il sostegno, viste le prevedibili defezioni annunciate in campo democratico.
Si chiude con la ritirata a stelle e strisce un G20 che segna un punto a favore dei padroni di casa russi e soprattutto del loro leader Vladimir Putin. Neanche una parola sulla Siria nel comunicato finale del vertice, ma giovedì i grandi della terra hanno lo stesso dibattuto accesamente sulla vicenda fino a notte tarda. C’è stato anche un incontro informale tra Putin e Obama, dopo che quello ufficiale era stato cancellato da Washington per ripicca sul caso Snowden. Venti minuti in cui, secondo le ricostruzioni, ognuno ha ascoltato ma è rimasto sulle proprie posizioni.
Durante la conferenza stampa finale del vertice, Putin è stato netto, snocciolando la lista di proscrizione dei pochi paesi che si sono schierati per l’azione militare in Siria anche senza il sostegno del consiglio di sicurezza dell’Onu: Francia, Turchia, Arabia Saudita e Canada. Per la Russia, il governo inglese di David Cameron vorrebbe intervenire ma non può, vista la contrarietà del proprio parlamento, mentre la Germania di Angela Merkel è molto cauta ad entrare nella disputa – non fosse altro per le incombenti elezioni politiche. Il presidente russo ha ricordato che la maggioranza della popolazione nei paesi occidentali, Stati Uniti compresi, secondo recenti sondaggi sarebbe palesemente contro l’intervento. La lista invece di chi ha scelto la linea russa è molto più nutrita: in primis i paesi dei Brics, quindi l’Indonesia, l’Argentina e l’Italia, che Putin ha menzionato in maniera esplicita. Infine ha rammentato la posizione del segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon e le parole spese dal papa per la pace. Negli stessi minuti il premier Enrico Letta confermava che l’Italia sposa in toto la linea dell’Onu e si limiterà a mandare aiuti umanitari per 50 milioni.
Sul merito, il capo del Cremlino non si è spostato di un millimetro: le armi chimiche sono state usate dagli insorti e non da Assad, gli Usa non possono attaccare perché non sono minacciati dalla Siria e in ogni caso solo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite può autorizzare interventi armati. L’unica concessione è su un possibile incontro tra il ministro degli Esteri russo Lavrov con Kerry. Ma resta da chiarire se lo scontro si sposterà all’Onu, in attesa del rapporto degli ispettori.
Di contro il presidente Obama ha scelto una linea mediatica ben diversa, conscio delle difficoltà incontrate nella tana del leone. Usando un tono un po’ dimesso, ha «cercato compassione» per la sua estrema sincerità quasi fuori dal protocollo. Una sorta di outing, come direbbero gli psicologi. «Lo so che sono stato eletto per mettere fine alle guerre e non per iniziarle…e sono stato un convinto multilateralista che ha creduto molto nel ruolo dell’Onu» ha ribadito. Però non si è sentito pronto a fare i nomi di chi lo segue, e ha potuto soltanto sottolineare che alla fine della discussione notturna tutti hanno concordato sul fatto che le armi chimiche sono state impiegate e che ci sono norme internazionali che le vietano, con sanzioni collegate. A Putin ha controbattuto a distanza, evidenziando che la maggioranza del G20 ritiene che le armi le abbia usate Assad e non l’opposizione armata. In serata è anche circolato un documento congiunto in cui gli Usa e altri 10 paesi, tra cui l’Italia, condannano Assad per l’eccidio di agosto.
Obama ha parlato all’opinione pubblica americana più che al mondo. La sua mente è già rivolta al voto decisivo del Congresso in programma la settimana prossima. Sa che i repubblicani potrebbero giocare l’argomento che serve un’azione ancora più dura per far perdere definitivamente la faccia al presidente premio Nobel della pace, oggi con l’elmetto, il quale così rischia di essere bloccato dalla destra più guerrafondaia che gli Usa hanno da decenni a questa parte. Un passaggio stretto e difficile su cui Barack si gioca tutto. Nel frattempo, spera che il rapporto Onu gli dia ragione sulle colpe di Assad, cosicché Putin possa finire sotto pressione in ambito Nazioni Unite e magari il parlamento inglese si possa ricredere in un secondo voto. Da qui la lobby franco-americana affinché il rapporto sia chiuso e presentato al più presto.
Ma lo scontro non è solo sulla Siria: le nuove indiscrezioni sullo scandalo Datagate, emerse durante il vertice sui media anglosassoni, hanno reso ancora più debole la posizione del presidente degli Stati uniti. Putin ha chiuso la sua conferenza stampa in maniera categorica: il governo russo non pensa ad alcuna cooperazione sul caso di Edward Snowden, poiché quest’ultimo in Russia non ha subito alcuna condanna. L’ultimo schiaffo al nemico ritrovato della guerra fredda. * Re:Common