Russia sì o no alle Olimpiadi di Rio al via tra poco più di due settimane, il caso è ancora aperto. E lo sarà ancora per un po’, perché il Comitato olimpico internazionale ieri ha deciso di rinviare ogni decisione, anzi «di voler esplorare opzioni legali» in merito alla possibile esclusione dai Giochi degli atleti russi, dopo la pubblicazione del rapporto di una commissione indipendente della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, sul presunto doping di Stato ideato e messo in pratica a Mosca tra il 2010 e il 2015. Ma ieri è stata anche la giornata delle repliche, delle precisazioni, per allontanare le nubi dense, anzi nere che stanno avvolgendo la Federazione russa dopo l’uscita pubblica della Wada, doping di stato con il coinvolgimento di agenti segreti e con due laboratori, a Sochi e Mosca, che potevano intervenire per manomettere le provette incriminate. Un’onda anomala che non avvolge solo gli sport a cinque cerchi tra il 2010 e 2015, dai test preolimpici di Londra, ai Mondiali di atletica 2013 di Mosca e le Universiadi di Kazan, ma anche gli altri sport, individuali e di squadra.

Ed è un enorme grattacapo per Mosca, ad appena due anni dai Mondiali di calcio voluti da Vladimir Putin e battezzato dall’ex numero uno della Fifa, Joseph Blatter. E per questo motivo la Fifa si è fatta sentire, dicendosi pronta a intervenire se la Wada presentasse qualche colpo di scena sul pallone.
Ma sotto la lente dell’agenzia antidoping mondiale, che ha incassato l’appoggio anche dell’agenzia antidoping statunitense, l’Usada, è il disegno criminale messo a punto per le Olimpiadi invernali di Sochi, sul Mar Nero, altra competizione voluta dal potere russo per mostrare la potenza organizzativa all’Occidente, come avveniva durante la Guerra Fredda: 577 provette alterate, 312 atleti coinvolti, urina purificata al posto dell’urina prelevata dagli atleti russi in gara piazzata da agenti segreti dell’ex Kgb in azione nelle loro camere a mezzanotte, per lo scambio delle provette, con quelle «pulite» che erano stipate in un ufficio all’interno dell’alloggio che ospitava gli atleti stessi.

Un sistema perfetto, al riparo dagli sguardi degli osservatori internazionali, ideato dopo la deludente spedizione russa ai Giochi invernali di Vancouver, sei anni fa, fino alla confessione del capo del laboratorio olimpico, Grigory Rodchenkov negli Stati uniti, le prime rivelazioni finite sul New York Times, un clima di tensione alimentato dalla misteriosa morte di due ex capi dell’agenzia antidoping russa, Rusada, fino alla relazione affidata dalla Wada all’avvocato canadese Richard McLaren che ha fatto accenno anche a un cocktail chiamato Duchessa per mistificare i risultati delle analisi: tanto Chivas per gli uomini, vermouth per le donne.

Insomma, una spy story che ha messo in primo piano figure centrali dello sport della Federazione come il ministro dello sport, Vitali Mutko, che è anche membro del Consiglio della Fifa, presidente della Federcalcio russa e del comitato organizzatore dei mondiali di calcio del 2018. Con un tam tam mediatico – politico che caldeggia l’esclusione della Russia dai Giochi olimpici di Rio, e tra ritardi strutturali, le accuse di corruzione, i continui forfait di tanti atleti, spaventati dalla possibilità di contrarre il virus Zika, procede al ritmo di uno scandalo settimanale.

I russi nel frattempo provano a uscire dall’angolo: il vice viceministro dello Sport russo Iuri Nagornykh è stato sospeso dall’incarico fino alla fine di un’inchiesta interna sullo scandalo. Mentre il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha promesso la sospensione temporanea di quei dirigenti pubblici che fanno parte del documento sul doping di stato stilato dall’Agenzia mondiale antidoping. Invece il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov dava il suo contributo alla vicenda sottolineando l’ostilità dell’Usada, quindi degli americani, verso i vertici russi, con indebite pressioni sul Cio.