La sala d’ingresso del Palazzo Ducale di Venezia, con i suoi capitelli e colonne del porticato trecentesco, mai è stata il naturale ed emozionante prologo al tema espositivo svolto ai piani superiori come per i disegni, sketch, libri e taccuini di John Ruskin, i quali, incorniciati in scatole illuminate nella penombra, raccontano della sua colossale impresa grafica e editoriale e dell’impegno che lo consumò per preservare la memoria dell’architettura storica di Venezia.
Si tratta di una singolare corrispondenza che impreziosisce la mostra, curata da Anna Ottani Cavina, John Ruskin Le pietre di Venezia (fino al 10 giugno, catalogo Marsilio). Da lungo tempo attesa in Laguna, l’esposizione dà abbondante prova del virtuosismo grafico dell’intellettuale artista inglese, il quale ha rivestito un ruolo essenziale nelle definizione delle teorie estetiche della modernità attraverso una pluralità di interessi che dall’arte si sono estesi alla scienza, alla politica, alla religione. Addentrarsi nella conoscenza di queste singole attività di Ruskin, tra le quali il disegno riveste una posizione centrale, significa interrogarsi sul rapporto tra arte e società, tra estetica e etica, sullo sfondo della città con i suoi quartieri di sfruttati, il potere politico dominante con i suoi interessi di classe, la tecnica con le sue imposizioni e premesse ideologiche. Singolare che le tesi di Ruskin, esposte agli albori dello sviluppo dell’industria, stiano ancora lì irrisolte, cosicché la sua voce «a più di un secolo dalla sua morte – come scrive Joseph Rykwert in catalogo – risuona così urgente, così personale, che sembra di ascoltarlo dal vivo».
La mostra, nel taglio datole di «sfida a celebrare Ruskin come pittore» (Ottani Cavina), seppure svii da alcuni temi della riflessione ruskiniana, concentra lo sguardo sulla caparbia volontà del critico militante nella difesa di Venezia, ritratta stone by stone e facendone l’oggetto di un inesauribile impegno sociale sempre appassionato ed esuberante, ma anche mutevole.
Occorre innanzitutto dire che Ruskin già nella scelta dei suoi primi soggetti di paesaggio prende le distanze dagli Old Maisters che «imitano» la natura (Reynolds) invece di «commentarla fedelmente». Ciò significa, come evidenziarono Donata Levi e Paul Tucker nel loro Ruskin didatta (Marsilio, 1997), che la pittura del paesaggio naturale «non può prescindere da un procedimento intellettivo né può fare a meno della specificità della forma». La specific form estesa alla natura è quella propria della struttura geologica o del mondo vegetale (sono gli acquarelli dipinti tra 1856 e 1875, Foglie morte, Foglie di rododendro, Ramo di quercia, Alga marina), o ancora quella dei fenomeni naturali come le nuvole in cielo osservate e disegnate dal suo cottage a Brantwood, sul lago di Coniston, e annotate nel suo diario come «arborescenze d’argento» o «sulfuree pellicole blu latte». Raccontare con la pittura il paesaggio o soffermarsi sugli elementi che lo compongono, sarà per Ruskin un’indispensabile «cosa per il cuore e per mente», perfino un «veicolo d’istruzione religiosa come l’arte di Duccio e Giotto».
Tuttavia già a quattordici anni, nella descrizione che fa del suo primo viaggio con i genitori in continente, accanto alla scoperta del paesaggio alpino (mirabili gli acquarelli esposti del Monviso, di Courmayeur, di Chamonix, dipinti negli anni della maturità), raffigura diversi contesti urbani rivelando un forte interesse per l’ambiente costruito e per gli uomini che lo abitano. Ammirato lettore del poema Italy di Samuel Rogers, con le illustrazioni da Turner, e delle litografie dei tour in Olanda e Germania di Samuel Prout, Ruskin affronta i «brani di architetture» con lo stesso minuzioso sguardo rivolto alla natura, entrambi appartengono a una nuova concezione del genere paesaggio che con la pubblicazione del primo volume (di cinque) di Modern Painters (1842-’60) si sostanzierà di una base teorica, oltre a servirgli per ergersi in difesa della pittura visionaria di Turner. Tre tele del pittore londinese – amato e collezionato già dal padre John James –, tutte aventi quale oggetto Venezia, sono lì a significare uno dei due modi nei quali si può raffigurare il visibile. L’«astrattismo iperrealistico» della tela Venezia, Santa Maria della Salute (1840-’45), immersa dentro un liquido lattiginoso, è uno di questi, e mostra le «leggi profonde che l’occhio dell’uomo comune non è in grado di scorgere». Tuttavia non va dimenticato che per l’estetica ruskiniana il sovrasensibile rinvia sempre – l’evidenziò con acume Giovanni Leoni – «ai significati più profondi racchiusi nel Testo della Natura».
La natura, però, si può tradurre in arte anche nella maniera «storica» dei Preraffaeliti. Con la Confraternita di Hunt o Millais Ruskin condivide la stessa «ispezione ravvicinata della realtà» e il «pensiero ossessivo» del dettaglio. È inspiegabile l’assenza in mostra di una qualche loro opera sebbene in catalogo se ne facciano brevi cenni. I Preraffaelliti, che per Ruskin crearono «opere spesso non inferiori alle migliori espressioni di Albrecht Dürer», sostengono con la sua stessa convinzione la «Natura del Gotico», le ragioni dell’arte medievale e bizantina, il valore simbolico e religioso dell’operatività artistica legata intimamente all’antica manualità dell’artigiano in opposizione alla riproducibilità meccanica. Siamo dentro il gothic revival inglese, sbocco dell’immaginazione apocalittica di Füssli e Blake e prova concreta della volontà di «capovolgere il tempo» che si nutre della filosofia di Carlyle, dei racconti di Scott, della poesia di Tennyson e dell’architettura di Pugin.
Il romantico e anticlassico Ruskin visita più volte l’Italia, e in particolare Venezia, dal 1841 al 1876. Nel 1845 scopre il Tintoretto e resta «completamente annichilito» davanti ai suoi dipinti nella Scuola Grande di San Rocco. Studia reinterpretandoli i maestri veneziani (Carpaccio, Veronese), inquadrando i particolari dei loro dipinti o facendone veloci sintesi grafiche che si possono ammirare nell’ultima tappa della mostra. Nel suo soggiorno più lungo con sua moglie Effie, dal novembre 1849 al marzo 1850, lavora con dedizione assoluta alle Pietre di Venezia che pubblicherà un anno dopo. I quei giorni di febbrile impegno, disegna, misura, abbozza ogni particolare di palazzi, monumenti e case veneziane su taccuini divisi per soggetto. Per Palazzo Ducale c’è il Palace Book: poiché non crede che questo possa «stare in piedi per altri cinquant’anni», non gli basta disegnarlo ma fa eseguire anche dei calchi e scatta un centinaio di dagherrotipi aiutato dal suo domestico John Hobbs, dagherrotipi che oggi sono tra le poche testimonianze di Venezia alla metà dell’Ottocento.
Nell’ultimo decennio della sua vita (muore nel 1900 a ottantuno anni), sofferente di depressione e follia, quando mette mano alla sua incompiuta autobiografia Praeterita (1885) dice che tutto quello che fece a Venezia «è stato lavoro accessorio», sminuendo il significato del suo impegno nell’avere fatto conoscere al mondo non solo le meraviglie del gotico ma anche le sue distruzioni e i falsi restauri fino a segnalare il fenomeno della sua decadenza, «con la D maiuscola – come rimarca Sergio Perosa in catalogo –, destinato e ingigantirsi per tutto il corso dell’Ottocento e del Novecento». Adesso che su Venezia non si arresta la follia di chi la vorrebbe tutelare con scelte scellerate, l’incontro con l’opera di Ruskin è un utile rimedio per non desistere dal combatterle.