Inversamente a quanto succede nel film di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo, dove un attore esce dallo schermo per entrare nella vita reale, nel nuovo romanzo di Salman Ruhsdie, La caduta dei Golden (traduzione di Gianni Pannofino, Mondadori, pp. 452, euro  23,00) il narratore di nome René sogna di fuggire dalla realtà per rifugiarsi nel mondo del cinema, «sfondando la quarta parete per entrare nelle immagini, non per uscirne». Giovane cinefilo con velleità registiche, allo scopo di raccontare la storia degli strani personaggi che hanno preso possesso di una lussuosa dimora al centro del Greenwich Village nel giorno dell’insediamento di Barack Obama, René fa ricorso a tutta la sua cultura cinematografica, sommando riferimenti a pellicole di tutte le epoche e latitudini.
È questo il suo modo di entrare nei film, fino a che il cinema non inghiotte la realtà rendendo sempre più difficile separare il vero dal falso, ciò che sta dietro o davanti allo schermo dalle immagini di luce che vi si agitano. Non per caso, René abita in un’esclusiva enclave del Village chiamata Mcdougal-Sullivan-Gardens, «uno spazio felicemente appartato dal mondo prosaico e spaventoso al là dei suoi confini», dove è facile sentirsi come su un set cinematografico e, come il James Stewart della Finestra sul cortile hitchcockiana, spiare i comportamenti dei vicini, alla ricerca dei loro segreti.

Quando René progetta di girare il suo film sul miliardario Nero Golden – arrivato da un paese ignoto insieme ai tre figli, ribattezzati sul suolo americano con gli altisonanti nomi latini di Petronius, Apuleius e Dionysus – dopo averne scoperto l’origine indiana, lo riconduce subito alla saga del Padrino grazie al coinvolgimento del personaggio negli affari di un «Don Corleone» di Bombay. Non basta: mentre René s’immerge nel suo progetto cinematografico al tal punto da ritrovarsi ad abitare nella Golden House e divenire, quasi suo malgrado, una pedina nel gioco dell’astuta Vasilisa, giovane e bellissima seconda moglie russa di Nero, l’intera nazione americana entra, poco a poco, in un altro film, una sorta di horror fumettistico.

Il perfido Joker di Batman, infatti, si candida alla Presidenza degli Stati Uniti, deciso a «trasformare l’intera nazione, con piglio fintamente scherzoso, in un romanzo a fumetti truculento». A nulla può Batwoman, la sua avversaria: il 28 novembre 2016, il Joker «con i capelli verdi che risplendevano nel trionfo, la pelle bianca come un cappuccio del Ku Klux Klan, le labbra che grondavano sangue anonimo (…) era diventato re e viveva in una casa dorata nel cielo».
L’epoca del romanzo è dunque compresa tra l’elezione di Obama nel 2009 a quella di Trump nel 2016, a ridosso della cronaca: per evitare che il romanzo si leghi troppo al presente e rischi di diventare rapidamente obsoleto, Rushdie affianca i continui riferimenti cinematografici con rimandi alla cultura classica, inserendo il tutto in un contesto fortemente letterario, da cui sono quasi del tutto assenti gli elementi magico-realistici e i barocchismi che hanno costituito sin qui la cifra dominante della sua scrittura.

Come Furia, l’altro romanzo newyorkese di Rushdie, anche La Caduta dei Golden è la storia di un uomo che tenta di reinventarsi un’identità nella Grande Mela, azzerando il passato. Tuttavia, mentre in Furia, che uscì nell’agosto del 2001, un complicato sviluppo fantascientifico faceva seguito alla prima parte realistica in cui si profetizzava la tremenda esplosione della rabbia delle minoranze, culminata nell’attacco alle torri gemelle, nella Caduta dei Golden il problema relativo alle identità lacerate, scisse, plurali di tutti i personaggi, insieme alla loro volontà di cancellare il passato sono affrontati mantenendo uno stretto contatto con la realtà contingente, senza mai scordarsi che il «reale» non obbedisce necessariamente alle regole del cosiddetto «realismo».

Come nel capolavoro I Figli della mezzanotte, anche nella Caduta dei Golden, una famiglia disfunzionale viene a rappresentare, per analogia, una nazione altrettanto inetta. Ma alle magie quotidiane che punteggiavano i suoi precedenti lavori, Rushdie ora sostituisce le bizzarrie del reale: le bugie su cui i Golden costruiscono il loro impero destinato a crollare tragicamente; la mescolanza di bontà e cattiveria che può nascondersi in ogni individuo; la difficoltà – ma anche l’innato desiderio – di scindere il bene dal male; l’emergere, non dal vuoto, ma dallo scontento montante in un paese diviso, di nuovi barbari «che crescevano come selvaggi decisi a bruciare il mondo che li aveva generati e pretendevano di salvarlo mentre lo davano alle fiamme».

I recensori americani non hanno mancato di notare nel romanzo l’eco del Grande Gatsby (soprattutto per quanto concerne la posizione del narratore che, come Nick Carraway, racconta una vicenda di cui si trova ai margini) e del Falò delle Vanità di Tom Wolfe; per i critici inglesi, invece, la storia della caduta rovinosa di una ricca famiglia vista attraverso gli occhi di un giovane outsider rimanda piuttosto a Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh. Ma, soprattutto, i tre fratelli Golden, con le loro personalità inquiete, non possono non riportare alla mente Dmitrij, Ivàn e Alëša Karamazov, mentre dickensiano è il folgorante inizio del romanzo, con l’arrivo a New York del ricco e potente Nero, un «simulacro dell’umano che non riusciva a esprimere neanche un minimo di vera umanità», di fronte al quale bambini e cani si ritraggono, perché egli è simile «alla Bestia della fiaba, a disagio in abiti eleganti». E come nel miglior Dickens, malgrado la vicenda principale abbia un epilogo tragico, è comunque la vita a trionfare nel finale.

Una apprezzabile simmetria fa sì che il romanzo si apra con un esergo da François Truffaut: «La vita ha molta più immaginazione di noi», e si chiuda con le parole: «Non c’è che il vorticoso movimento della vita». Questa esistenza piena di immaginazione, che con il suo inarrestabile moto si impone sulla rovina personale e sulla catastrofe collettiva («Dobbiamo vivere, non importa quante volte è crollato il cielo», è un’altra citazione in esergo, dall’Amante di Lady Chatterley di D. H. Lawrence) viene evocata, ancora una volta, attraverso il ricorso a tecniche cinematografiche.

Convinto che il miglior modo di narrare una storia sia tradurla in immagini e non in parole, René affida alla cinepresa il finale del suo lungo racconto, invitando il lettore a seguire la sua macchina da presa mentre «inizia a ruotare sul suo asse verticale, tracciando cerchi completi, lentamente» e poi accelera e tutte le facce si confondono, «finché la rotazione diventa così rapida da farle scomparire, e non resta che una scia circolare, i segni della velocità, il moto. Le persone (…) sono secondarie». Intato, il ritmo vertiginoso della vita continua: ed è ancora il cinema a raccontarla, sulla pagina scritta.

Se, con I figli della mezzanotte, Rushdie riuscì nell’ impresa di restituire in scrittura la narrazione orale, nella Caduta dei Golden è il cinema a divenire parola: non si può non apprezzare lo sforzo del traduttore italiano, Gianni Pannofino, che si è confrontato con la doppia fatica di trasporre nella nostra lingua non solo il linguaggio di Rushdie, come sempre alquanto personale e complesso, ma anche le tecniche e le immagini cinematografiche tradotte dall’autore in parole.