Molteplici sono gli approcci al mondo migrante e alle sue problematiche, ma spesso è sottaciuto il complicato ruolo di mediazione culturale che gli operatori dei centri di assistenza si trovano a svolgere nei riguardi degli stranieri che accolgono.

Se un profilo professionale formato ad hoc ancora manca, con qualche eccezione, fra cui va annoverato il servizio di counselling e supporto psicosociale dell’associazione Frantz Fanon di Torino, le esigenze poste dai migranti in difficoltà – col loro bagaglio gravido non solo di sofferenza, ma di modi peculiari d’intendere la vita – spiazzano i volontari, gli educatori e le stesse autorità preposte.

UN ESEMPIO È OFFERTO dalla connessione fra la tratta delle giovani nigeriane e le pratiche vudù. Come noto, un patto diabolico (juju) sarebbe stretto fra queste donne, al momento di lasciare la loro terra, per legarle alle Madams che le attendono in Europa al fine d’inserirle sul mercato della prostituzione. Solo in Italia, l’anno scorso, ne sarebbero giunte, in modo più o meno clandestino, diverse migliaia, quasi tutte dalla città di Benin City, capitale di uno degli stati di cui si compone la federazione della Nigeria. Le ragazze, alcune minorenni, sono tenute poi a rimborsare il debito contratto coi trafficanti, d’importo compreso fra 20.000 e 50.000 euro.

Di quali strumenti dispone un operatore per orientarsi e orientare chi gli sta in fronte, quando – da un lato – deve adoperare il linguaggio della burocrazia e delle norme scritte, mentre – dall’altro – la sua interlocutrice cela fra le mani un oggetto misterioso che considera la sua ancora di salvezza?

IL PACCHETTO, un feticcio fabbricato in Nigeria, contiene un amalgama d’ingredienti (unghie, peli pubici, resti di biancheria intima, etc.), che hanno macerato nel gin (o nel vino di palma) e sono stati sottomessi a incantazioni da parte di un prete tradizionale (jujuman), presso un altare o un tempio. Il luogo di simili cerimonie è dedicato a uno degli spiriti del pantheon dei vudù: di solito si tratta di Mamy Wata (divinità marina, metafora della penetrazione in realtà sconosciute, portatrice di ricchezza) o di Ayelala (secondo la leggenda, una schiava sacrificata per pacificare due comunità in lotta e da allora garante del rispetto dei patti).

IL FETICCIO, la cui forza mistica richiede alimento, ossia pratiche rituali successive, da svolgere all’arrivo, è un supporto magico di salvaguardia per la migrante ma, al medesimo tempo, ha il potere di ritorcersi contro di lei, qualora non ottemperi all’impegno a mantenere il segreto intorno a chi l’ha aiutata a partire e le ha dato un “lavoro” sulla strada.

 

Una rivisitazione della figura mitologica di Mamy Wata da parte dell’artista Rica Nelson

INSOMMA, L’OPERATORE, nel predisporre il dossier relativo alla donna, deve essere in grado sia di valutare, in base alle leggi italiane, il suo diritto a risiedere sul territorio nazionale, sia di entrare, in qualche modo, nell’universo mentale di questa. Emergono quindi tematiche che esulano da rigide classificazioni: la Nigeria centro-meridionale non è in preda a guerre fratricide o a drammatiche carestie, eppure le candidate al viaggio aumentano di continuo, nonostante le ragazze siano consapevoli dell’odissea che le attende durante il tragitto (col transito in Libia) e del mestiere che finiranno per svolgere. Lo studioso Matthieu Louis (Cahiers d’études africaines, 211, 2013) parla al proposito di «una grande avventura», di una scommessa col destino, vissuta come un atto di sfida; le tribolazioni costituirebbero così un’esperienza eroica di crescita, condotta lontano da casa, in un mondo ostile.

È L’EDUCAZIONE RICEVUTA che prepara le giovani alla durezza di una simile erranza e al sacrificio di sé. Lo conferma un’indagine condotta nel 2016 dalla sociologa Clementina Osezua dell’università di Ife, che ha sintetizzato nell’espressione «agnello sacrificale» il ruolo assegnato dalle famiglie alle ragazze che migrano, inseguendo l’idea illusoria di un benessere economico da ottenere in breve tempo. Nell’inglese nigeriano sono, a giusto titolo, soprannominate le run girls.

In un simile quadro socioculturale, la logica del denaro si somma, sovrapponendosi in modo disordinato, a credenze magiche, concepite per accompagnare la persona nel suo cammino, ma suscettibili di costituire pure una minaccia, qualora il patto diabolico venga infranto.

Il risultato è un sistema di dominio che gioca, con abilità, su due piani: da un canto quello dell’arricchimento materiale e dello sfruttamento, proprio della modernità capitalista, dall’altro quello tradizionale della sottomissione dei giovani sia agli adulti (i parenti e le Madams), sia all’imperio delle entità invisibili.

 

Statuetta votiva di Mamy Wata dalla Nigeria sudorientale

IL CORPO DELLE PROSTITUTE diviene, allora, l’asse dove si focalizzano le tensioni e uno stato di dipendenza legato ad economie predatrici. Lo illustra l’antropologa e psicologa Simona Taliani, ricorrendo alle nozioni di «corpo-feticcio» e di «corpo-sesso»: il pacchetto prodotto dal jujuman – o packet, come lo chiamano le donne nigeriane – perde il valore di amuleto protettore, per rivestire quello di strumento di manipolazione.

Il rito subìto alla partenza non risponde ai canoni di un’iniziazione tradizionale, dove la neofita è introdotta alla conoscenza della propria cultura e del proprio ruolo nella comunità; il patrimonio di conoscenze e di miti cosmogonici che compone la religione vudù è ignorato dalle ragazze, spesso, di fede cristiana pentecostale. Ciò che loro assorbono è ambiguo, opaco e, di conseguenza, intimidatorio.

NEL DISAGIO della migrazione, si ritrovano a esprimere il loro malessere attraverso un corpo del quale non si sentono più padrone, al punto che questo, come un oggetto incontrollabile, manifesta talvolta segni di crisi sotto forma di una presunta possessione spiritica, i cui codici sono ovviamente incomprensibili agli operatori italiani. Non regolata da un contesto cerimoniale adeguato, in grado di contenerla, la possessione si rivela l’ennesima trappola, per donne in balìa di un sogno fallace di prosperità.