Da lontano sembra una classica statua equestre, quelle concepite apposta per i condottieri militari sette-ottocenteschi –in bronzo scuro, appoggiato su un austero podio di pietra a forma di parallelepipedo; cavallo e cavaliere in posizione maestosa. Anche il titolo – Rumors of War (voci di guerra) calza il profilo alla perfezione. Niente di più estraneo alla cacofonia culturale, commerciale e umana della newyorkese Times Square, dove la statua di quasi dieci metri è apparsa venerdì scorso.
È solo avvicinandosi che si avvistano i dettagli che fanno di questo anacronismo un oggetto contemporaneo.

L’uomo a cavallo – come Napoleone o Robert E. Lee- è in realtà un giovane con i dreadlocks, che invece di una divisa coperta di mostrine, indossa una felpa con cappuccio e dei jeans strappati. Rumors of War è la prima opera pubblica di Kehinde Wiley, il quarantaduenne artista afroamericano di Brooklyn a cui Barack Obama ha commissionato il suo ritratto ufficiale da esporre alla National Gallery di Washington. Wiley – che ha dipinto l’ex presidente Usa, seduto informalmente su una sedia e circondato da un rigoglioso sfondo di vegetazione verdissima- è noto per il suo lavoro sulla ritrattistica classica; quadri in tinte vivaci che celebrano giovani di colore (i suoi modelli sono spesso reclutati in Africa, India o Sudamerica) in posizioni «eroiche» secondo i codici della tradizione occidentale del ritratto.

Dopo essere stato esposto qualche settimana nel cuore di New York, questo suo nuovo lavoro è destinato ad venir installato in permanenza a Richmond, in Virginia, una della capitali storiche del Sud confederato. La via in cui la statua troverà la sua collocazione definitiva è stata di recente ribattezzata in onore del tennista nero Arthur Ashe e incrocia la celebre Monument Avenue, un’arteria che deve il suo nome a una serie di statue celebrative dei generali dell’esercito del Sud.

Rumors of War, ispirata proprio da quelle statue, è un gesto coerente nell’ottica di riappropriazione di linguaggio formali che caratterizza l’opera di Wiley , e si colloca al centro di uno dei dibattiti culturali del momento. Cosa fare dell’arte che celebra figure o momenti storici venuti a simboleggiare delle ingiustizie? Intensificato dopo la violenta manifestazione dei nazionalisti bianchi nel 2017, a Charlottesville (era stata indetta contro la rimozione di una statua del generale Lee), la conversazione sui monumenti confederati è un’altra sfumatura delle guerre culturali di oggi -ne più ne meno di chi sostiene che non si devono più guardare i film di Woody Allen o Roman Polanski, che Balthus va nascosto nei musei o che i curriculum universitari vanno ripuliti del passato secondo gli standard della contemporanea giustizia sociale.

Contro questa tendenza alla rimozione (fisica nel caso delle statue), la scelta dialettica di Wiley sembra particolarmente interessante, un gesto di forza, di riconquista della Storia e delle storie (un po’ il procedimento che fa con il West il nuovo film di Kelly Reichardt). «Mi sembrava che ci dovesse essere il modo di invertire la rotta» ha detto l’artista al «New York Times». «In quanto nero, guardare la statue dei generali mi riempie di orrore e paura… Ma si può dire sì a qualcosa che ha un aspetto come il nostro. Sì all’inclusività, a una nozione più vasta di quello che significa essere americani».

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