Una caratteristica che ancora oggi definisce Rotterdam, rispetto ad altri Festival, è l’attenzione verso film che trattano il cinema, che in qualche modo provano a interrogarlo.
Raoul Ruiz, contre l’ignorance fiction! di Alejandra Rojo non solo ricorda un autore, ma si pone come momento di riflessione completo rispetto alla pratica di scrivere, pensare e girare cinema, nella sua accezione più umana e creativa. Parlare della sterminata opera di Ruiz (centodiciannove film) significherebbe quasi conversare sulle spalle di un gigante, spesso dal linguaggio impenetrabile e, anche per quello, così affascinante. Questo documentario – una sentitissima dedica al maestro e amico – offre tre fondamentali chiavi di lettura per tentare di schiudere lo scrigno di un’opera così misteriosa nella sua totalità. Attraverso la poesia, la scienza e la giovinezza si possono disegnare le coordinate alla base della sua visione unica del mondo. Della sua personalissima idea di rappresentazione.

Sono passati ormai sei anni dalla morte del cineasta cileno e il suo universo polimorfo rimane un monumento alla storia e alla cultura visiva del secondo Novecento.
Nel film, sono gli amici di una vita a raccontarlo, a partire da Paulo Branco, uno degli ultimi folli e romantici operai del cinema (che per poter produrre Ville des pirates nella propria casa fu costretto a passare intere nottate al tavolo da poker). Ogni persona ha il suo doppio: come l’immagine e la parola, il mondo di Ruiz è una poesia infinita, riflessa in quella relazione tra scientifico e metafisico che proiettava sul reale. E in quella spinta edonistica nel vivere la propria esistenza come fosse un passaggio degno continuamente di essere raccontato.

Eterno custode di un’eredità delle rimembranze, che vanno dall’infanzia nel tetro e incantanto arcipelago di Chiloé, fino all’esperienza di giovinezza come consigliere per il cinema durante il governo di Allende, fino al dramma di Pinochet: alla sua propensione onnivora Rojo dedica una splendida escursione, nel segno della modernità e della libertà che proprio il suo cinema donava attraverso un rapporto sensibile che intrecciava più saperi.

All’interno del programma a lui dedicato sono stati proiettati anche due cortometraggi dello stesso Ruiz. Epistolar (2012), uno dei suoi ultimi lavori, è una riflessione minimale sul senso e la dialettica degli oggetti con cui comunichiamo quotidianamente; poi il classico Le film à venir (1997), manifesto dell’estetica del frammento, deriva surreale e attualissima sull’immagine attraverso la setta dei Philokinetes.
Quasi come fossero due squarci temporali, due dialoghi stessi con il tempo e la rappresentazione: quel tempo da ritrovare – lui che riuscì anche nell’impresa di portare la sua originale visione di Marcel Proust sul grande schermo – come oggetto misterioso che solo la magia del cinema è ancora in grado di evocare.