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Rui Neves, l’affascinante estetica del rischio

Rui Neves, l’affascinante estetica del rischioRui Neves – foto di Vera Marmelo / Gulbenkian Música

Incontri Parla il direttore del festival lusitano Jazz em Agosto, tra ricordi rivoluzionari e speranze per il futuro

Pubblicato circa un mese faEdizione del 15 agosto 2024

«Magari non la conoscono così bene, non comprano così tanti dischi, non girano così tanti festival come noi, ma al pubblico questa musica piace: ad attrarli è una direzione estetica di jazz alternativo, perché non abbiamo grandi star e non proponiamo mainstream, non ci interessano scelte commerciali e possiamo prendere dei rischi». Nel cinquantesimo dalla fine della dittatura, Jazz em Agosto, il festival organizzato dalla Fundaçao Gulbenkian, è arrivato alla 40esima edizione con un risultato di pubblico addirittura sorprendente: quasi tutte le undici serate sold out, mille spettatori a sera per proposte di grande qualità ma certo non di cassetta come il quartetto Being & Becoming di Peter Evans o il gruppo The Locals. Rui Neves – una intensa esperienza come critico e conduttore di programmi radiofonici – ha guidato il festival dall’inizio ai primi novanta, poi di nuovo dal 2000: 76 anni, parla della musica e dei musicisti che ama con l’entusiasmo di un neofita.

Il suo primo contatto con la musica è stato lontano da qui…

La prima musica della mia infanzia è stata dell’etnia chokwe: sono nato nel 1948 a Dundo, nel nord-est dell’Angola. Mio padre lavorava per una compagnia di diamanti. Era una città privata, piccola, ma c’era anche un museo etnografico, su storia e cultura dei chokwe, molto creativi, nella musica e nella scultura in legno. Per me è stato fantastico. Fino ai dieci anni sono stato in Portogallo solo per due soggiorni di sei mesi. Poi per poter continuare i miei studi sono venuto a Lisbona dai nonni.

Come ha cominciato col jazz?

I miei erano moderni, a mia madre piaceva Frank Sinatra, e in casa c’era il suo album con Count Basie. Negli anni sessanta ascoltavo radio in onde medie dal mare del Nord; mi influenzò molto un programma di Radio Luxembourg, Kid Jensen Dimensions. Nel ’68 uscì This Was, esordio dei Jethro Tull, con un brano di Roland Kirk suonato da Ian Anderson. Poi per posta, da Londra, comprai Bitches Brew di Miles Davis, una bomba!

Lei non c’era quando Charlie Haden al festival di Cascais nel ’71 dedicò Song for Che ai movimenti di liberazione delle colonie portoghesi, episodio che viene considerato un preludio al 25 aprile del ’74.

Ero in Mozambico, in guerra. La mia famiglia era di tradizione anarcosindacalista, studiavo all’università, c’era stato il maggio francese, e nel ’69 alle università di Lisbona e Coimbra c’era molta agitazione, io ero in mezzo, e mi spedirono in guerra. Feci l’ufficiale. Ero contro la guerra, non ero un eroe, ho avuto la responsabilità di un reparto, ho cercato di fare in modo che non morissimo stupidamente, e ho messo in atto le mie forme di sabotaggio della guerra. È stata un’esperienza molto forte: per me l’idea della vita è diventata molto più importante. Quando nel ’71 Luíz Villas-Boas (pioniere della diffusione del jazz in Portogallo e antifascista, ndr) organizzò il primo festival internazionale di jazz a Cascais chiesi una licenza, ma un ufficiale tardò a rientrare in Mozambico e il comandante non mi consentì di partire: ero così arrabbiato! Il messaggio politico del jazz a quell’epoca con il free e il black power ebbe certamente un’influenza, ma soprattutto la gente era molto curiosa: quel primo festival richiamò 10 mila spettatori, incredibile!

Lei ha cominciato come musicista.

Nel ’73, appena congedato, contattai Carlos Zingaro, il violinista (principale esponente dell’avanguardia portoghese per decenni, ancora in attività, ndr), che mi spinse a cominciare a suonare, il sax soprano. Entrai nel suo gruppo, Plexus: facevamo una sorta di free music organizzata, all’epoca eravamo gli unici in Portogallo con una cosa del genere.

Cosa ricorda del 25 aprile del ’74?

La mattina mi svegliai e sentii quello che stava succedendo: «è fantastico!» – mi dissi – «l’hanno fatto!». Ce lo aspettavamo: conoscevo molti di loro, erano ufficiali della mia generazione, e gli ufficiali, persino colonnelli e alcuni generali erano contro la guerra. Dopo la rivoluzione col gruppo concludevamo ogni concerto con L’Internazionale, in una chiave free jazz, e il pubblico impazziva! Facevamo anche degli happening Fluxus, e una compagnia di teatro d’avanguardia dal nome significativo, A Comuna, ci invitò a fare l’occupazione di un vecchio palazzo: nel ’74 era abbastanza facile occupare… (ride, ndr). Daunik Lazro, il sassofonista, mollò gli studi alla Sorbona perché voleva vedere la rivoluzione portoghese e cominciò a suonare con noi, prima di tornare a Parigi e fare la sua carriera. Nel ’74 suonammo al festival di Cascais. Fu un periodo veramente interessante: c’era la libertà, non c’era più la censura, la polizia politica. Ma ormai avevo ventisei anni e mi sembrò tardi per fare seriamente il musicista. Intanto avevo cominciato a fare programmi alla radio; nel ’79 con Zingaro organizzai un festival molto avanzato, con un cartellone bellissimo, a Setubal.

In Europa, anche in festival gloriosi, si constata un invecchiamento del pubblico del jazz d’avanguardia, qui no.

Negli ultimi anni il pubblico è aumentato, ed è più giovane, e ha acquistato più familiarità con quello che proponiamo. Noi siamo focalizzati sul presente, c’entra anche la mia esperienza di radiofonico: cercavamo sempre nuove musiche, nuovi dischi, nuove situazioni. Il presente sta in mezzo, tra passato e futuro, ma mi piace pensare che sia più futuro che passato.

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