Tra le pieghe di un tragico e desolante racconto della rivoluzione e della guerra civile russa Ivan A. Bunin ricorda a un tratto, apparentemente senza alcun nesso diretto, come Tolstoj avesse scritto di un suo amico indigente che aveva speso tutto quanto aveva per comprare un canarino metallico a carica: nello sconcerto generale, piano piano era apparso chiaro che l’unica spiegazione per quel gesto era che l’amico era solo incredibilmente stupido.
Nei suoi diari in presa diretta dal turbine rivoluzionario, Giorni maledetti, per la prima volta tradotti in italiano da Marta Zucchetti (Voland, p. 224, € 18,00), Bunin fornisce molte letture e interpretazioni di quello sconvolgimento a lui massimamente inviso. Eppure nessuna immagine è più fedele al suo punto di vista di questo canarino meccanico governato da un ottuso apprendista stregone. La motivazione invece che spinge Bunin a fissare giorno per giorno inquadrature scioccanti e sorprendentemente nitide del tracollo di tutto il suo mondo è esplicitata in maniera inequivoca: «sto solo cercando di mantenere vivo l’orrore, ma davvero non posso, la mia attuale sensibilità non è sufficiente». A un secolo di distanza è palese il contrario: senza crudeltà sovraesposta, senza ambizione alcuna di raccordo complessivo, con quella ostentata partigianeria che può ben essere letta in filigrana dal lettore odierno, Giorni maledetti costituisce una testimonianza di rara efficacia dei settecento giorni che sconvolsero quanto restava dell’impero russo.

Una prosa fuori dal tempo
Ivan Bunin è allo scoppio della rivoluzione uno scrittore quarantenne pienamente affermato, con alle spalle spietate cronache del degrado della Russia contadina (Il villaggio e Valsecca) e alcuni dei capolavori assoluti della sua prosa breve (fra tutti Il signore di San Francisco). Seguiranno, in emigrazione, La vita di Arsen’ev, che gli varrà il Nobel nel 1933 e, nella tarda maturità, gli struggenti racconti d’amore di Viali oscuri. La sua è una prosa fuori del tempo e fuori dagli schemi, fondata con orgoglio sulla poetica del realismo ottocentesco, ma priva di univocità etica e pervasa del raffinato sentimento estetico tipico del modernismo di cui si dichiarava fiero oppositore. Nelle sue cronache dall’abisso, una diaristica registrazione di eventi storici e privati convive con citazioni a ruota libera di fonti giornalistiche e voci individuali captate nei meandri del caos, con riflessioni di orizzonte molto ampio o ristretto a singoli dettagli d’angoscia, sprazzi di memorie lontane, sfoghi del cuore anche molto ruggiti, scorci smaglianti di natura viva e luce lunare. L’impressione complessiva è quanto di più lontano da una preventivabile scrittura diaristica: una notazione si innesta sull’altra con continuo mutamento d’ambientazione e contesto, di tema e di ritmo, lo stile è ora scabro e fotografico, ora fluido e disteso, sarcasticamente ellittico. Senza che venga meno la referenzialità si percepisce sempre il tessuto teso e coinvolgente della narrativa d’invenzione.

L’arco cronologico va dal gennaio all’aprile del 1918, e poi riprende, dopo il trasferimento da Mosca a Odessa, quando Bunin è di nuovo raggiunto dai bolscevichi anche nella città meridionale, dal marzo al giugno del 1919. Nulla è detto della riconquista di Odessa da parte dell’armata bianca che avverrà due mesi dopo, nulla dell’intensa attività pubblicistica e propagandistica dell’autore nei ranghi dei bianchi né della sua fuga nel 1920 a bordo di un piroscafo francese alla volta di Parigi. Il libro testimonia, insomma, i soli stati d’animo di un uomo in completa balia dei bolscevichi: vuole trasmettere scoramento e insieme le vibrazioni inesaudite della speranza, in una compattezza che denuncia un ben studiato profilo, quasi trama. Le due fasi sono però profondamente diverse tra loro: Mosca è la scoperta di una pur terrificante ma nuova e in qualche modo sorprendente condizione esistenziale, nella quale la vita del vecchio mondo pur se sommersa dal nuovo non si è ancora interrotta. Ci sono ancora riunioni letterarie furentemente antibolsceviche, teatri, negozi pieni di merci, serate da amici e quasi veri ricevimenti, le strade e i tram sono arene di ininterrotto, farneticante dibattito politico, del quale Bunin è dilettato cronista. Il potere dei bolscevichi è avvertito come paradossale, inspiegabile, certamente temporaneo, e i tedeschi, fino a ieri nemici acerrimi, sono attesi come liberatori e latori della nemesi; a Mosca la presenza della natura è pervasiva e rassicurante, continuamente interposta agli eventi degli uomini, mentre a Odessa è in secondo piano, lasciando spazio sempre più ampio assume al rimestio dei pensieri sui prodromi, le cause, gli attori e le angoscianti prospettive di una rivoluzione avvertita ormai come profondamente radicata. A Odessa, il panorama cittadino è privo di barlumi di vita e di luce, la penuria di tutto, il gelo negli appartamenti e soprattutto la tentacolare morsa della nuova quotidianità bolscevica e dei suoi rituali serrano la gola.

Lo sguardo di Bunin sulla rivoluzione è crudamente unilaterale e in tutto reazionario, il distacco in primis classista dal proletariato trionfante si tramuta in esternazioni di diffidenza fisiognomica affatto lombrosiane, che a Odessa cedono il posto a «un dolore fisico, una vera repulsione» per «questa marmaglia bestiale». Le invettive si articolano in una gamma di fantasiose variazioni che arrivano all’insulto scurrile, e l’onta si estende con non minore veemenza ai parimenti sconfitti fautori della rivoluzione di Febbraio e, in campo lungo, all’intera intelligencija, responsabile di aver sepolto di strali per un secolo tutti i ceti sociali proni all’autocrazia tranne il popolo, che ora mostrerebbe il suo vero volto di cieca e viscerale ferocia. Spietato lo è Bunin anche nei confronti della «bassezza della nuova letteratura», da un lato il tronfio Majakovskij e i cabaret futuristi, dall’altro il Blok avvinto dal turbine della rivoluzione, che conferma la sua stupidità, e Brjusov indegno voltagabbana.

Nella pancia della balena
Ciò che più avvince in questa narrazione, spasmodica come poche, è il sentimento, perfettamente reso, di essere nella pancia della balena, parte di un universo ai confini della storia e ai confini dell’umano, nel quale l’autoinganno è una medicina necessaria. Mentire per sopravvivere, per immaginare un domani: da qui una sorta di testo nel testo delineato dalle forme astruse e fantasiose che assume la speranza, una storia alternativa collettivamente immaginata giorno per giorno e riportata da Bunin con gli occhi sgranati (e lucidi), secondo cui la polizia segreta tedesca è in giro per Mosca a prender nota delle atrocità bolsceviche, i bolscevichi sono alleati dei monarchici per riportare gli zar sul trono, Pietroburgo è occupata dai finlandesi nell’aprile del ’19 e poi almeno altre tre volte.

La versione italiana di Marta Zucchelli è snella e fluida, di piacevole lettura, al di là di una serie di interpretazioni non corrette di singoli luoghi testuali. Molto meritevole anche l’ampia introduzione, strumento fra i tanti che un’odiosa moda sempre più di rado permette di vedere, e che qui aiuta a contestualizzare un libro babelico, dove non è mai il singolo dettaglio storico il punto, ma l’exemplum straziante di un’anima abbarbicata alla sua autoproiezione che va sfaldandosi, come un albero secolare in mezzo all’alluvione.