Nuova Zelanda o Inghilterra. I pronostici, che nondimeno tante volte il campo si è premurato di smentire, dicono che la vincitrice dell’ottava coppa del mondo di rugby sarà una di queste due. La prima è campione in carica e dalla finale mondiale di Auckland a oggi ha perso soltanto tre dei 47 match disputati (più due pareggi). La seconda ospita il torneo e da quattro anni si prepara al grande evento al quale si presenta in gran spolvero. Più sotto Sudafrica e Australia, possibili finaliste.

Si comincia venerdì 18 settembre, nella maestosa cornice del Twickenham di Londra, non un semplice stadio ma lo «stadio» del rugby (è lì dal 1907), il più grande del mondo: cerimonia di apertura e poi via, ore 21, con Inghilterra-Figi. Si chiude sabato 31 ottobre con la finalissima. Quarantotto partite lungo un mese e mezzo di torneo. Per le venti nazioni partecipanti sarà un autunno di passione rugbistica.

Qualche cifra per mettere a fuoco quella che è ormai la terza più importante manifestazione sportiva del mondo, dopo i Giochi olimpici e i mondiali di calcio: oltre sei milioni di praticanti nel mondo – concentrati soprattutto entro i confini dell’ex Impero britannico -, giro d’affari miliardario, quasi 200 milioni di dollari di attivo grazie ai biglietti venduti e alla cessione dei diritti televisivi del torneo. Per questa ottava edizione gli inglesi, e con loro l’International Board, hanno giocato sul velluto: parte delle strutture che hanno ospitato le Olimpiadi londinesi del 2012 saranno utilizzate per la manifestazione, a cominciare dall’Olympic Park che ospiterà cinque partite. Anche Wembley, il tempio del calcio inglese, ospiterà un paio di match. Le altre sedi sono Cardiff, Birmingham, Manchester, Brighton, Milton Keynes, Gloucester, Leeds, Newcastle, Exeter e Leicester.

Le venti squadre partecipanti sono state suddivise in quattro gironi e le prime due classificate accederanno ai quarti di finale. Due i gironi di ferro: nel gruppo A una tra Inghilterra, Australia e Galles dovrà fare le valigie dopo la prima fase; nel gruppo D l’Italia si troverà di fronte l’Irlanda, vincitrice degli ultimi due «Sei Nazioni», e la Francia. Nel gruppo B Sudafrica e Scozia dovranno guardarsi da Samoa, mentre nel gruppo C Nuova Zelanda e Argentina dovrebbero superare agevolmente le qualificazioni, avendo di fronte avversarie non irresistibili come Tonga, Namibia e Georgia.

Delle sette edizioni finora disputate ben sei sono andate alle nazioni extraeuropee. Con la sola eccezione dell’Inghilterra, vincitrice nel 2003, la Nuova Zelanda (1987 e 2011), l’Australia (1991 e 1999) e il Sudafrica (1995 e 2007) hanno sempre fatto valere la grande forza dell’emisfero Sud. E per gli inglesi, che il rugby hanno inventato, la supremazia degli ex-dominions è una di quelle cose difficili da mandar giù. Per questo hanno pianificato ogni cosa, affrontando un quadriennio di transizione e di scarse soddisfazioni per arrivare all’appuntamento con una squadra capace di competere e mirare al titolo. Stuart Lancaster, il coach subentrato a Martin Johnson dopo il fallimento dei mondiali in Nuova Zelanda, ha lavorato sul rinnovamento e ha trovato forze fresche di primissima qualità: Farrell, Ford, Nowell, Joseph, May e Watson sono già pronti a lasciare il loro segno sul torneo.
Il tabellone, dai quarti di finale in poi, colloca ipoteticamente gli inglesi nella parte alta e gli All Blacks in quella bassa. La finale potrebbe dunque essere questa, con grande soddisfazione di tutti (un po’ meno dei tifosi del XV della rosa, che preferirebbero vedere la Nuova Zelanda già eliminata nei knock-out, come accadde nel 2007 in Francia) purché gli inglesi chiudano al primo posto il loro girone di ferro. Se così non fosse per i bianchi sarebbero guai perché rischierebbero di ritrovarsi nei quarti gli Springboks, avversario tra i peggiori.

La Nuova Zelanda sembra inattaccabile. Ha anche perso l’International Championship, il torneo dell’emisfero Sud, come le era capitato quattro anni fa, alla vigilia della coppa del mondo. Anche allora aveva vinto l’Australia e a molti «kiwis» il ricorso è parso di buon auspicio. Tanto per mettere le cose in chiaro, gli All Blacks hanno poi regolato la questione una settimana dopo, rifilando ai wallabies un micidiale 41-13 nella Bledisloe Cup. La squadra è una rodatissima macchina da guerra. Non sbaglia un colpo, e se proprio le capita di perdere un match è soltanto per non dare a noia. Le nuove stelle: i trequarti Julian Navea e Nehe Milner-Skudder, il mediano di mischia Aaron Smith, il seconda linea Brodie Retallick. Gli inamovibili: il capitano Ritchie McCaw (34 anni, 142 caps, lascerà dopo i mondiali), il divino Dan Carter (33 per 106 caps), il carrarmato Ma’a Nonu (33, 97), il marmoreo Jerome Kaino.

Vincere il mondiale è il minimo che ogni neozelandese si aspetta dai «tuttineri». Nientedimeno o sarebbe un fallimento. Ma mai gli All Blacks hanno vinto un mondiale fuori dalle mura di casa, neanche quando parevano invincibili. Nel 1995 trovarono gli Springboks formattati da Nelson Mandela, nel 1999 l’ultima grande Francia in versione champagne, e nel 2007 se qualcosa poteva andar male, andò male (legge di Murphy). Chissà come andrà questa volta.