Il 9 maggio 1600, poco prima del suo ventitreesimo compleanno, Rubens partì da Anversa verso sud. Giunse, passando probabilmente per Verona e Padova, a Venezia. Poco più di un anno dopo una lettera scritta dal fratello Philip testimonia come Peter Paul avesse già visitato buona parte delle città della penisola. Restò in Italia otto anni raccogliendo notevoli opportunità lavorative e un bagaglio figurativo con pochi confronti. I quadri e le sculture esposte alla mostra Rubens e la nascita del Barocco, a cura di Anna Lo Bianco, a Palazzo Reale a Milano fino al 26 febbraio 2017 (catalogo edito da Marsilio), compongono una ridotta antologia dei rapporti tra il pittore e l’arte italiana.
L’esposizione è divisa in quattro sezioni tematiche dai titoli evocativi, stralciati dalla Vita scritta nel 1672 da Giovan Pietro Bellori o buoni un po’ per tutte le stagioni: «Nel mondo di Rubens»; «Santi come eroi»; «La furia del pennello»; «La forza del mito». Nella prima, il pittore è presentato come un buon borghese, dedito al lavoro e alla famiglia, «umano, nobile di maniere e d’abiti». Poi si entra nelle fasi del complicato processo creativo ed è facile perdersi: Bellori, che parteggiava per la bellezza ideale di Domenichino e Poussin, scrive che «se havesse voluto seguitare i lineamenti delle statue di Apolline, di Venere, ò del Gladiatore, li alterava tanto con sua maniera, che non lasciava di esse forma, ò vestigio per riconoscerle». Rubens combinava infatti il repertorio derivato dai suoi predecessori con eclettismo e dirompente personalità. Faranno altrettanto, sulle sue tracce, ma con ragioni culturali diverse e autoctone, artisti della generazione successiva come Pietro da Cortona, Bernini, Lanfranco.
l disegni di padre Resta
Per sottolineare questo rapporto con l’antico, molte – troppe? – statue classiche sono posizionate al centro di strutture, su basi o dentro nicchie come in una scenografia costruita di cartone, alla ricerca di un colloquio con i dipinti; sarà forse un problema di allestimento, ma qualche nesso sfugge. Avrebbe forse aiutato una selezione di disegni. Come l’album con studi dal Laocoonte, dall’Ercole Farnese e dal Pescatore africano del Louvre conservato alla Biblioteca Ambrosiana, a pochi passi da Palazzo Reale. Padre Sebastiano Resta, uno dei più importanti collezionisti di disegni del Seicento, donò questi fogli ai giovani pittori dell’Accademia milanese perché trovassero un esempio negli esercizi di Rubens, che rivisitava l’arte del passato con «spirito inventivo e feroce».
La terza sessione della mostra si apre con «il ritratto più imponente e significativo» del periodo genovese di Rubens, il Giovan Carlo Doria scoperto da Roberto Longhi nel 1939. La massa enorme – riprendo dalla bellissima descrizione di Longhi di cui purtroppo non c’è traccia nel catalogo – è «vergata e percorsa da un chiaroscuro fremente e dinamico, quasi deflagrante, che sembra accendere il cagnolino balzante, strisciante al suolo come una miccia, poi infiammare la coda del destriero a guisa di una torcia controvento». E, mentre la furia elementare lo circonda, il giovane Doria, impassibile, tiene le briglie con gesto d’etichetta appreso alla scuola d’equitazione dei nobili genovesi. Sono davvero i prodromi del Barocco.
L’opera più importante realizzata da Rubens durante il soggiorno italiano è l’allestimento dell’altare maggiore della Chiesa Nuova a Roma. I suoi tre quadri, in loco dal 1608, dilatano lo spazio in un’improvvisa esplosione che si sfoga nei succhi sanguigni della materia e nei gesti delle figure gigantesche, mentre i raggi della luce divina che attorniano l’icona posta centralmente, una delle più venerate di Roma, suggeriscono una profondità infinita della fuga prospettica. A darne conto in mostra sono due dei dipinti preparatori. La prima idea d’insieme è in una tela proveniente dalla Gemäldegalerie di Berlino, un saggio splendido in cui la commistione di spunti da Raffaello, Barocci, dalla visione luminosa veneziana, dalla glittica e dalla statuaria antica, è tradotta in un linguaggio adatto agli scopi spettacolari del cattolicesimo romano. I personaggi sono agglomerati vitali fasciati di panneggi esageratamente morbidi, che esorbitano dalla tela con una fisicità prorompente; gli stessi elementi nei decenni successivi saranno trattati da Rubens ancora più liberamente, con le masse vorticose di corpi muscolosi o voluttuosi per le quali il pittore era ed è celebre e riconoscibile ancora oggi.
È farraginosa la selezione dei prototipi in pittura. Già nel 1977 Michael Jaffé montava un vasto dossier sull’argomento, Rubens and Italy (la versione italiana è del 1984): vi si poteva attingere a piene mani. Non si contano infatti i disegni, le copie, le variazioni che Rubens trae da Mantegna, Leonardo, Pordenone, Tiziano… in una sorta di incessante cannibalismo figurativo. Alcuni dei quadri ammirati dal pittore sono oggi dentro i musei milanesi e sarebbe stato utile almeno segnalarli, mentre la copia della Notte di Correggio realizzata da Giuseppe Nogari nel 1746, accostata in mostra alla bellissima Adorazione di Fermo dipinta da Rubens nel 1608, non può che dare l’impressione di una seconda scelta, così come il povero Tintoretto convocato da Palazzo Barberini. Va meglio nell’altro senso: le opere sulle quali si legge, o dovrebbe leggersi, la lezione di Rubens, sono quasi tutte di qualità. Lascia però perplessi la sala costruita intorno all’Ercole che strangola il leone di Nemea, una rovinata tela di bottega nella quale la furia del pennello non si intravede nemmeno. Sta in compagnia di due Sansoni, uno attribuito a Bernini – ma di scuola –, l’altro di Lanfranco.
Suggestioni milanesi
Nella bibliografia sul pittore Milano è citata raramente tra le mete dell’itinerario italiano. Per mancanza di documenti è un problema spinoso, ma la mostra di Palazzo Reale sarebbe stata il luogo ideale per riprendere il tema. Magari provando a leggere le suggestioni raccolte di fronte al Cenacolo di Leonardo o all’Incoronazione di spine di Tiziano, oggi al Louvre, ma vista da Rubens a Santa Maria delle Grazie: il furore dei gesti, le cromie corrusche, la forte carica emotiva nell’enfatizzazione plastica dei corpi e il volto di Cristo ottenebrato dal dolore si fissarono indelebilmente nei ricordi del fiammingo, tanto che la pala di Tiziano è stata più volte accostata a quella con lo stesso soggetto dipinta da Peter Paul nel 1602 per Santa Croce in Gerusalemme a Roma che in mostra, purtroppo, non c’è. Chissà poi se in città Rubens ha avuto il tempo di vedere qualche opera di Paris Bordon o di studiare, a San Nazzaro, le ante d’organo di Giovanni da Monte… C’era molto da dire anche sul fronte collezionistico: il suo nome riemerge più volte negli inventari delle raccolte milanesi dell’epoca ed è noto il rapporto con Federico Borromeo. E ancora, è interessante il percorso del Cenacolo di Rubens ora a Brera, che si inserisce nella storia iniziale di due musei importanti come il Louvre e la Pinacoteca braidense. Queste connessioni con la città ospitante avrebbero tolto alla mostra il sapore di un evento che va bene dovunque e comunque. Sono attenzioni che ci si aspetta da un’esposizione frutto di studi lunghi e approfonditi, come si dichiara questa. Malgrado tutto, e a dispetto delle incoerenze tra cartellini, audioguida, saggi e schede, qui e altrove, il finale colpisce. Luca Giordano è viscerale ammiratore di Rubens e, nella sua Allegoria della pace di Palazzo Spinola, connessa ad alcune note invenzioni del fiammingo, Venere scaccia sdegnata un Marte realmente furioso; lui si sfalda e vortica in una grana pittorica potentissima, e accompagna verso l’uscita.