«Quando i miliziani dei gruppi Hutu arrivarono nel mio quartiere – racconta Honorine Mujyambere, all’epoca 13enne – ci salvammo solo perché avevamo il telefono. Tutti i nostri vicini furono uccisi».

«In realtà i rastrellamenti – prosegue la ricercatrice che oggi vive a Milano e lavora all’università – erano già in atto da tempo. Vivevamo in una casa grande in una zona residenziale di Kigali con alcuni zii e altri parenti. Ci odiavano perché eravamo Tutsi e il fatto che fossimo benestanti era un’aggravante. Quando sentimmo arrivare i camion dei paramilitarici riunimmo in salotto e si sentivano solo urla, botte e spari. La nostra casa era in fondo e nel tempo che ci misero a raggiungerci riuscimmo a telefonare per chiedere aiuto. Prima alla polizia, ma rispose che non poteva fare niente, poi ai Caschi Blu dell’Onu, che per fortuna intervennero subito e sparando in aria fecero scappare gli aggressori».

Da quel giorno Honorine e la sua famiglia quasi non uscirono più di casa, se non per estrema necessità. «A scuola ricordo che da un certo momento in poi le cose erano cambiate: ci facevano alzare per dichiarare ad alta voce la nostra etnia e persino quelle che fino a poco prima consideravo le mie amichette, iniziarono a chiamarmi “serpente tutsi”». Le storie dei rapimenti, degli stupri e degli omicidi di matrice etnica iniziavano a diffondersi e, d’altronde, alcuni media come la Radio-Televisione Libera delle Mille Colline, detta anche “Radio Machete”, propagandavano sempre più apertamente la necessità di fare pulizia ed eliminare i “serpenti” dal Paese.

Fu proprio Radio Machete a dare il segnale di inizio dei massacri la sera del 6 aprile 1994, subito dopo l’abbattimento dell’aereo sul quale viaggiava il presidente in carica Juvénal Habyarimana.

«Quella sera mia madre venne a chiamarmi e mi disse di andare ad avvertire lo zio che il presidente era morto; quando andai a bussargli lo sentii ripetere solo “è finita per noi”».

Da quel momento in poi per lei e la sua famiglia iniziò un periodo infernale. Si nascosero prima da alcuni vicini Hutu che però poi li cacciarono per paura; trovarono asilo in una chiesa ma il giorno della funzione (forse con una scusa, forse costretto) il prete aprì le porte e i paramilitari entrarono dando vita a un vero e proprio massacro a colpi di machete.

«Le donne venivano stuprate – ricorda Honorine – e gli uomini ricevevano in continuazione colpi prima di essere abbandonati sanguinanti per terra. Io a quel punto, dopo due mesi di fuga, di fame e sete, di paura e pianti ero esausta. Non volevo più lottare, volevo quasi che mi uccidessero».

Per fortuna di Honorine e dei suoi fratelli poco tempo dopo i genocidari furono costretti alla fuga e loro riuscirono a salvarsi. Non fu così per il resto della famiglia che fu uccisa durante i cento giorni terribili tra il 7 aprile e metà luglio e per sua madre che sopravvisse solo per poco a causa delle botte e delle violenze subite.

«I primi tempi furono tremendi: riuscimmo a rientrare in casa solo perché non era stata bruciata ma veniva usata da uno dei paramilitari. Avevano rubato infissi e porte e io mi presi una malaria terribile. Mangiavamo una volta al giorno e non sempre, la fame era terribile e anche gli anni successivi furono molto duri. Ma ricordo che il momento in cui presi davvero coscienza dell’accaduto fu durante le commemorazioni del 2000. Una bambina cantava una canzoncina che in una strofa diceva qualcosa come “mamma dove sei?”. Io iniziai a piangere e fu lì che iniziai a ripensare a tutto ciò che era successo».

Poi nel 2008 Honorine arriva in Italia con una borsa di studio e inizia a stabilire contatti con i sopravvissuti come lei, fino a fondare, sei anni fa, Ibuka Italia: «per cercare di diffondere il più possibile la memoria di quei giorni terribili e di avere giustizia affinché eventi del genere non accadano più in nessun luogo del mondo».