È un problema annoso del nostro Paese, che data almeno dieci anni, ma da quando siamo costretti a convivere con il Coronavirus, la questione dell’aborto farmacologico normato in Italia con imposizioni ascientifiche e che non trovano pari in Europa, è diventato un serio impedimento per le donne che vogliono interrompere una gravidanza senza dolore. Per questo ieri a Roma una lunga serie di associazioni femministe e/o attive nella difesa delle libertà civili, partiti politici e perfino alcuni rappresentanti delle istituzioni hanno manifestato davanti al ministero della Salute raccogliendo l’«invito all’azione» della Rete italiana contraccezione e aborto Pro-choice.

Dall’Associazione Luca Coscioni a Non una di meno, da Amica, Aidos e Udi fino al Gruppo bicamerale pari opportunità M5S, dal Prc, Potere al Popolo, Radicali Italiani e Possibile fino alla Società medici italiani Contraccezione, dalla Casa internazionale delle donne al Circolo Mario Mieli, e molti altri, hanno organizzato in pochi giorni un presidio sotto la sede ministeriale di Lungotevere Ripa e sono disposti a tornare in piazza come quarant’anni fa, per difendere lo spirito della legge 194/78, che nell’articolo 15 prevede il ricorso alle tecniche più efficaci e aggiornate, e per «i diritti sessuali e riproduttivi, che sono diritti umani».

Ieri hanno consegnato alla sottosegretaria della Salute, Sandra Zampa, e a una rappresentante dell’Aifa, le 80 mila firme raccolte a supporto di una petizione rivolta al ministro Speranza perché aggiorni le linee di indirizzo nazionali per l’uso della Ru486, datate 2010. Allora, ricorda Pro-Choice, il Consiglio superiore di sanità «prescrisse il ricovero ospedaliero di tre giorni per la somministrazione dei farmaci, imponendo una procedura costosa per il Ssn, inutile dal punto di vista della tutela della salute, sgradita e di ostacolo per la maggioranza delle donne (tanto che, di fatto, i casi con ricovero per 3 giorni sono solo l’1,8% di tutte le Ivg)».

«Erano linee di indirizzo giù anacronistiche allora – ricorda la ginecologa Mirella Parachini, vicesegretario dell’Associazione Coscioni – e infatti, visto che non erano vincolanti, la regione Emilia Romagna le disattese subito. E, insieme a Lazio, Toscana e Umbria, decise la somministrazione delle pillole abortive in regime di day hospital. Nelle altre regioni dove invece vigeva il regime di ricovero ordinario, già allora il 95% delle donne firmavano l’autodimissione dopo aver assunto il farmaco, come ha rilevato lo stesso ministero».

Oggi Pro-Choice chiede di spostare il limite del trattamento con la Ru486 da 7 a 9 settimane, e di permettere l’assunzione della prima pillola (mifepristone) in regime ambulatoriale e della seconda (prostaglandine) a domicilio.

E invece, come è noto, alcuni giorni fa addirittura la giunta leghista umbra ha abolito la delibera firmata dall’allora governatrice Catiuscia Marini, e l’attuale presidente Donatella Tesei ha polemizzato perfino con il ministro Speranza per aver osato chiedere un parere al Css, prima di rinnovare le linee guida nazionali. La buona notizia è che il Css sembrerebbe disponibile, questa volta, a procedere in modo scientifico: ha infatti a sua volta chiesto il parere alla Società italiana di ginecologia e ostetricia che all’inizio dell’emergenza Covid aveva già raccomandato la somministrazione del farmaco in modo da minimizzare il rischio contagio per le donne.