Da Sposa del deserto a «sposa» del Califfo. Nel maggio del 2015, Palmira – uno dei siti archeologici più splendenti del Mediterraneo – è stata occupata dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi. Dopo quasi un anno e in seguito a una nefasta serie di distruzioni, che hanno visto sgretolarsi sotto le nubi esplosive dello Stato Islamico i templi di Baalshamin e Bêl, l’Arco di Trionfo e le Torri funerarie di Atenatan, Giamblico, Elahbel e Kitot, l’antica città carovaniera è stata riconquistata dall’esercito regolare siriano. Dopo aver ripreso il controllo dei quartieri occidentali e settentrionali di Tadmor (il moderno villaggio di Palmira, ndr), soldati di Assad sono apparsi vittoriosi in cima alla fortezza mamelucca di Qal’a ibn Ma’an, meglio conosciuta come castello di Palmira, da dove sventolava la bandiera nera di Daesh.

Malgrado gli scontri fossero ancora in atto presso le rovine, il 25 marzo la direttrice dell’Unesco Irina Bokova salutava la liberazione di Palmira, definendola una città martire. In un successivo annuncio, Bokova rendeva noto l’imminente invio di un team di esperti per mappare i danni. Nel documento si legge inoltre che Vladimir Putin garantirà il sostegno della Russia per lo sminamento del sito e le future ricostruzioni.

Ma mentre si festeggia, circolano sul web immagini dettagliate della cittadella, gravemente danneggiata nei combattimenti di questi ultimi giorni e d’altra parte già colpita – al pari di altre zone – dai MiG russi agli inizi di marzo, come comprovato dall’Association for Protection of Syrian Archaeology, (Apsa) associazione internazionale che dall’inizio del conflitto nel 2011 monitora lo stato di conservazione del patrimonio storico archeologico della Siria.

Sul sito internet Apsa è disponibile un video girato qualche giorno fa al museo di Palmira. All’ingresso dell’edificio si riconoscono le macerie del Leone di Allat, la poderosa statua alta 3,5 metri e di circa 15 tonnellate di peso, abbattuta dai jihadisti il 27 giugno scorso. All’interno, la telecamera coglie uno scenario devastante: sul pavimento, sculture riverse si mescolano a frammenti del tetto, collassato presumibilmente in seguito a bombardamenti vicini alla struttura.

Raggiunto al telefono, Cheikmous Alì – presidente dell’Apsa e ricercatore in archeologia del Medio Oriente all’Università di Strasburgo – dice al manifesto che nelle sale permanevano un migliaio di oggetti, in quanto solo 400 erano stati messi in salvo prima dell’arrivo dell’Isis. Alì – il quale può contare su una vasta rete di collaboratori sul terreno – ha inoltre reso noto che, in base alla sue informazioni, tre mummie conservate nel museo, e uniche nel loro genere, sono state bruciate dai miliziani prima della loro cacciata.

Se dunque (v. Chiara Cruciati sul manifesto) «la riconquista di Palmira è importante per il regime di Assad perché gli consente, simbolicamente, di presentarsi come il difensore della civiltà contro le barbarie», le strategie politiche e militari continuano a superare le ragioni della salvaguardia del sito, inscritto alla lista del patrimonio mondiale dal 1980. Le recenti riprese effettuate a Palmira da un drone e diffuse da un’emittente russa, mostrano un paesaggio desolante, dal quale spiccano – nella loro cupa magnificenza – il teatro, il lungo colonnato e il tetrapilo. La cosmopolita città di Zenobia, crocevia di popoli e culture, ferita prima dalle granate dell’esercito di Assad, poi consapevolmente consegnata alla violenza iconoclasta dell’Isis, non appare più come un sogno. Quell’Occidente che oggi tira un sospiro di sollievo e fa a gara per correre ai ripari, dovrebbe portare per sempre il rimorso di un’amputata bellezza.