Se dati due punti ci passa una retta, in questo caso la retta è Pier Paolo Pasolini che, sul principio degli anni cinquanta, a un nuovo amico siciliano parla spesso di un suo vecchio amico degli anni di Bologna, studente con lui al liceo Galvani, il poeta Roberto Roversi, libraio antiquario alla Palmaverde, un pianoterra al principio di via Rizzoli. L’amico siciliano (classe 1921, maggiore di un anno di Pasolini e di due di Roversi) si chiama Leonardo Sciascia, fa di controvoglia il maestro elementare a Racalmuto e tuttavia dirige la rivista «Galleria» (una testata militante e persino dernier cri, qualcosa di opposto alla farragine antiquaria dei vecchi fogli isolani) e ha appena avviato a Caltanissetta una collana di plaquettes per i tipi del suo omonimo editore Salvatore Sciascia.
Peraltro, se Pasolini è già Pasolini, i due amici che mette in diretta relazione sono poco più che degli esordienti. Roversi ha pubblicato negli anni della guerra alcuni fascicoli poetici e ha appena ritirato dalla tipografia, dopo averlo pagato di tasca sua, un volumetto di racconti, una specie di antistoria dell’occupazione meridionale dal titolo Ai tempi di Re Gioacchino che, riplasmato e riscritto, presto diverrà il suo primo romanzo Caccia all’uomo (’59); per parte sua, Sciascia ha alle spalle un prezioso volumetto di apologhi esopiani, Favole della dittatura, e sta scrivendo, alternando i modi del reportage e dell’autobiografia, il libro che segna il suo esordio ufficiale, Le parrocchie di Regalpetra (’56). Roversi viene dagli studi di storia del Risorgimento, dall’amore per i grandi lirici tedeschi (Hölderlin, Rilke, Trakl), ha avuto maestri irregolari, specie gli scrittori bolognesi anarco-comunisti Renata Viganò e Antonio Meluschi, e ha la tempra di un intransigente giacobino; viceversa Sciascia è un erudito di storia patria (i suoi numi si chiamano Michele Amari e Serafino Amabile Guastella), guarda all’esempio del conterraneo Vitaliano Brancati e, gravido di pessimismo illuminista, adora Stendhal e Courier senza affatto sottrarsi alle ossessioni cognitive di Pirandello.
Occasione dell’incontro è la sua richiesta a Roversi di una manciata di testi per la collanina siciliana da cui usciranno, appunto, le Poesie per l’amatore di stampe nel ’54. Insomma sono due caratteri a specchio e sono fatti per intendersi grazie a una particolare forma di adesione, non necessariamente di complicità, che deriva tanto dall’essere entrambi molto schivi, laconici, quanto e soprattutto dal pensare la letteratura come tramite di una vocazione nudamente etico-politica: e basti ricordare che al primo capo del decennio in cui fermenta la loro amicizia escono opere quali, da un lato, Dopo Campoformio (’62), diagramma epico-lirico del tradimento postresistenziale, e, dall’altro, Il giorno della civetta (’61), primo tassello di una metafisica narrativa che si incentra sulle dinamiche fra individuo e potere.
Dunque, che dovesse nascere tra i due una vera amicizia, e sia pure inevitabilmente de lonh, era già segnato e lo documenta infatti il carteggio Dalla Noce alla Palmaverde Lettere di utopisti 1953-1972 (Pendragon, pp. 303, euro 22.00) che esce nell’attenta cura di Antonio Motta e comprende, debitamente annotate, circa duecento lettere provenienti dalla Fondazione Sciascia” di Racalmuto e dall’archivio personale di Roversi. Per lo più ascrivibili al primo decennio di amicizia, sono lettere pervase dalla passione del fare e dell’allargare i rispettivi orizzonti d’attesa. Roversi sta per inaugurare con Francesco Leonetti e Pasolini la rivista «Officina» (in cui sarà presente con alcuni testi anche il nuovo amico siciliano) e alle sue spalle, tra le righe, si intravede un reticolo di presenze fondamentali (ad esempio il giovane critico Gianni Scalia e il poeta Giuseppe Guglielmi, assediato dalla malinconia), mentre Sciascia prende a uscire dall’isola non solo per una sua ascesa editoriale ma anche per il rango di autore civile che gli viene via via riconosciuto. La stessa bibliofilia è un legame fra loro giacché è proprio nel catalogo della Palmaverde che l’autore de Il consiglio d’Egitto (’63) riesce a ritracciare alcuni incunaboli, siano essi di Verga e De Roberto ovvero di un umile cronista di storia patria, di ciò che fu detta la sua filosofia della «sicilianitudine». Né mancano ovviamente giudizi sulla rispettiva produzione letteraria e però schietti e prodigati da due veri e propri sparring partners. Ecco Roversi, di primo acchito, su Le parrocchie in una lettera del 20 marzo ’56: «Non so se riesco a farmi intendere. Desidero che tu senta in che modo leggo, e come il mio giudizio non sia amichevole o convenzionale, ma autentico. Hai scritto un libro assai bello (posso dirlo fin d’ora) e, soprattutto, utile. (E questo, questo solo conta, oggi; per tutti)»; ed ecco invece Sciascia, dal suo rifugio senza telefono nella contrada La Noce, in data 25 giugno ’64 a proposito del romanzo Registrazione di eventi: «Un po’ mi è dispiaciuta la parola avanguardia nella pubblicità; anche se dice una verità sostanziale ed effettuale, per un tuo libro bisogna che non si pensi agli Arbasino, ai Sanguineti e alla scuola di Palermo».
Il carteggio viene diradandosi nella seconda metà degli anni sessanta e si interrompe nel ’72, quando Roversi si è da tempo isolato dall’industria culturale (la prima mandata delle Descrizioni in atto, tirate al ciclostile, risale al ’69) e Sciascia, reduce dai dissapori con i comunisti per la pubblicazione de Il contesto (’71), sta redigendo la fosca allegoria di Todo modo. A questa altezza, le loro strade sono divise ma restano in ogni caso parallele perché se il poeta bolognese è entrato quasi in clandestinità alla Palmaverde il narratore siciliano, all’opposto, è la voce pubblica e clamante (consigliere comunale a Palermo per il Pci, poi deputato del Partito radicale) che dopo la pubblicazione de L’affaire Moro di fatto è costretta all’esilio parigino, o al reclusorio in contrada La Noce, perché invisa all’intero arco costituzionale dei partiti e all’opinione pubblica che oggi si direbbe mainstream.
Qui viene a taglio il libretto di Nico Perrone, La profezia di Sciascia Una conversazione e quattro lettere (Archinto, pp. 104, euro 14.00), che fa seguire a una sua densa introduzione sul profilo politico dello scrittore l’integrale di una intervista parzialmente uscita sul manifesto del 5 dicembre 1978, a seguito della controversa ricezione dell’Affaire in Italia. Interrogato sul proprio rapporto con i comunisti, Leonardo Sciascia risponde: «Abbiamo commesso una quantità di errori, abbiamo avuto una quantità di miti sbagliati, abbiamo taciuto tante verità in omaggio a quella che credevamo la verità suprema. Io non sono mai stato comunista, però ho pensato e agito molto secondo comunismo. E ora siamo proprio alla stretta finale. Ora siamo arrivati al punto che si può coniare uno slogan elettorale, se negli slogan fosse possibile dire la verità: Non c’è che la sinistra per fare una buona politica di destra». Nella penultima fra le lettere trascritte in Dalla Noce alla Palmaverde, del marzo ’72, annunciandogli l’uscita di una sua lettura del Contesto, Roberto Roversi aveva ricordato all’amico come, e purtroppo, il pensiero critico stesse mutamente naufragando e come, perciò, gli «umori» avessero ormai la meglio sui «giudizi» nella pubblica e privata comunicazione.