È il Dianei 4, noto ritrovo hipster nel centro di Bucarest, il luogo in cui incontriamo Catinca Draganescu. È la regista di Rovegan, spettacolo teatrale che setaccia e interroga il tema sociale e politico delle «badanti», di quell’esercito silenzioso che compone e segna un doppio viaggio nel legame tra l’Italia e la Romania. È una giornata tiepida di inizio estate e il venerdì precedente al Centrul Replika, Rovegan era già andato in scena nei suoi 90 minuti di performance ad alta intensità emotiva.

La cosiddetta «emigrazione delle badanti» è un fenomeno che nella società romena è ancora percepito come un nodo. Sintomatico a riguardo è che, mentre il termine «badante» è utilizzato in tutte le comunicazioni ufficiali dello Stato italiano per parlare di politiche migratorie e permessi di lavoro, il termine corrispondente romeno badanta non è ancora entrato nel DEX (Dictionarul Explicativ al Limbii Române).
In mezzo ai numerosi giovani, soprattutto ragazze, ad assistere a quello spettacolo vi erano anche uomini e donne «comuni» e di mezza età: nell’insieme, una piccola platea assai diversa da quella osservata poche settimane prima al Teatru National per La visita della vecchia signora nell’interpretazione di Maja Morgenstern.

Là era stato il trionfo della macchina teatrale col suo pubblico narcisista, qui qualcosa di più intimo, con al centro il trattamento di un argomento cruciale ed emergente. Radu Apostol, uno degli organizzatori del Centrul Replika, ci conferma in pieno quell’impressione: «siamo uno spazio gestito da alcuni volontari in lotta quotidiana con limiti di budget ma assai produttivo e capace di fare rete, perché ci proponiamo come piattaforma per tematiche che toccano gli interessi della comunità, in prevalenza giovanile». Più tardi sarà la stessa Catinca Draganescu a sintetizzare: «è l’eterno contrasto tra Teatro di Potere e Teatro di Idee: al Centrul Replika si fa teatro sociale con tematiche poco attraenti per i circuiti teatrali ufficiali e per l’industria culturale mainstream».

L’UNIVERSO INATTESO
Rovegan è un lavoro di teatro epico brechtiano. La scena è ridotta all’osso: tre sedie e un fotogramma per fondale dove campeggia una strada polverosa che svanisce nella steppa moldava, unico elemento antropico un cartello: «Bine ati venit la Vaslui», benvenuti a Vaslui. Tre attrici, Mihaela Teleoaca, Valentina Zaharia e Silvana Negrutiu, si alternano a dar vita ai personaggi e al coro; ciascuna scena è introdotta da un brano musicale ad alto effetto straniante (infinita gratitudine ad Alexei Turcan per aver distorto Felicità di Albano e Romina Power sino alle sue più grottesche potenzialità).

Rovegan è lo spaccato di un’Italia che non ti aspetti, quella che, scena dopo scena, rappresenta un quadro nitido in cui svanisce ogni espressione retorica come «italiani brava gente», per lasciare invece spazio a una domanda aperta: quanto degli atteggiamenti assunti verso queste donne sono frutto di povertà interiore e quanto di un’immatura coscienza collettiva? Basterebbe consultare un buon dizionario, per esempio Treccani, per districarsi nella prima riflessione lessicale: badante come «persona senza specifiche qualifiche professionali che si prende cura di anziani, malati o persone non autosufficienti», la realtà italiana contemporanea, invece, mostra un fenomeno ben più articolato.

La badante è colei che in una percentuale crescente in contesti famigliari si prende cura dei soggetti più deboli: anziani genitori, figli e persone non autosufficienti, consentendo agli altri membri della famiglia di perseguire obiettivi personali e professionali. Il divario tra coscienza collettiva sedimentata e realtà è enorme e, mentre vengono ospitate nelle case, in particolare italiane, poco o nulla viene investito per dedicare loro attenzione, tempo.
La novità di Rovegan è allora che per la prima volta in Romania il teatro metabolizza una figura cruciale con delicata operazione mostrandone l’universale condizione umana.

L’EPICA DI MAMMA CAPRA
Per Catinca Draganescu una prima fonte di ispirazione sono stati gli scritti di Liliana Nechita, un’ex badante moldava autrice di Exodul mamelor, apparso nel maggio 2013 come inserto del mensile romeno «Avantaje» e poi del romanzo Cirese Amare, (Ciliege amare, tradotto in Italia da Elena Di Lernia per Laterza).
Come però, mettere in scena questa narrazione contemporanea? «L’idea di usare la fiaba mi è giunta un sabato mattina ascoltando alla radio la lettura di Capra cu trei iezi (La capra e i tre capretti) in una nota trasmissione per bambini», ricorda Catinca con occhi sorridenti.

In Romania e in Moldavia la fiaba di Creanga scritta nel 1875 è radicata nella cultura popolare, fa persino parte del programma scolastico. La storia celebra la nozione dell’amore materno fino al sacrificio estremo e il suo doppio nella devozione filiale. Nell’immaginazione di Catinca «mamma capra è Mioara, una madre single di 47 anni che cerca di sopravvivere in un piccolo paese della Moldavia, fin quando la povertà estrema la costringe ad andare a cercare lavoro in Italia come badanta, i tre capretti sono le giovani figlie e l’anziana madre rimaste al paese».
Nasce così l’epica contemporanea di Rovegan, con un testo che procede a ritmo incalzante e onnivoro, passando dal registro della fiaba a quello del documentario scientifico: l’eco delle opere di Brecht e della recitazione «straniata» dell’attore che non deve immedesimarsi in alcun modo nella parte funziona e innesca un potente meccanismo narrativo.

Mihaela Teleoaca interpreta Mioara, mentre Valentina Zaharia e Silvana Negrutiu, alternano i loro ruoli – da figlie o anziana madre con voci belanti a dispotica «signora» italiana, a impersonale voce fuori campo che informa sull’etologia della Capra dei Carpazi. Attraverso la fiaba e una serie di espedienti narrativi Catinca riesce a mettere in scena «il miscuglio di emozioni che centinaia di migliaia di migranti economiche romene e moldave sperimentano, così spesso divise tra adesione a modelli culturali tradizionali e attrazione verso più emancipati modi di essere donna». Il titolo stesso del lavoro ama giocare con le parole ed echeggia la frivola moda del cibo vegano, segno di un Occidente sofisticato, di contro all’esigenza ancora primordiale di mamma capra.

SCRITTO PER IL TEATRO
Oltre agli scritti di Liliana Nechita, Catinca ha utilizzato anche la ricerca sul campo condotta con l’equipe dell’antropologa Alexandra Dinca nella regione di Vaslui e nell’ultimo atto cedono i confini tra finzione e realtà. Il fotogramma rimasto fino a quel momento come fondale fisso prende ad animarsi e a condurre il pubblico nei luoghi fisici e a incontrare i protagonisti reali.
Qui però Catinca ci mette in guardia: «Rovegan è anzitutto un lavoro teatrale e come tale deve essere accolto, al di là dell’urgenza del fenomeno osservato. Quello che mi interessava era costruire un mondo innervato dalla vita vera ma appartenente alla dimensione astratta dell’arte: sono una drammaturga».