«Come mai un uomo che non ha nulla da dire, e lo dice pure male, è stato in grado di dare vita ad un’opera tra le più importanti della letteratura francese?» si chiedeva Robbe-Grillet a proposito di Raymond Roussel (1877-1933). Definito da Cocteau il «Proust dei sogni», Roussel fu una delle più singolari figure di quella straordinaria costellazione di «irregolari» che contrassegna il Novecento letterario transalpino (si pensi, tanto per fare qualche nome, a Jarry che, in punto di morte, domanda uno stuzzicadenti e a Max Jacob che afferma di interloquire correntemente con Dio). In quanto a stranezze, Roussel non aveva niente da invidiare agli scrittori citati: benestante, affetto da misoneismo, percorreva il mondo in lungo e in largo all’interno della sua roulotte superaccessoriata, molto simile a un carro funebre, salvo non uscire mai dalla stessa perché troppo impegnato a scrivere. Arrivò a far ricavare una sorta di oblò sul fianco della tomba della madre al solo scopo di vederne il volto fino all’ultimo momento. Deceduto in circostanze mai chiarite in un albergo palermitano (probabilmente suicida, la vicenda ispirò una delle più insolite ricostruzioni storiche di Sciascia), Roussel venne considerato dai surrealisti come un antesignano della loro opera e influenzò profondamente, oltre a Breton, anche Marcel Duchamp, il cui Grande Vetro, compresa la machine célibataire, si rifà a suggestioni di stampo rousseliano. È inoltre considerato un precursore dell’OuLiPo e del Nouveau roman.
Poeta, narratore, saggista, drammaturgo, Roussel è conosciuto soprattutto per gli strampalati romanzi Impressions d’Afrique (1910) e Locus Solus (1914), tradotti in italiano rispettivamente da Rizzoli (1964) ed Einaudi (1975). Adesso una piccola casa editrice di Potenza propone meritoriamente una nuova versione di Locus Solus (Edizioni Grenelle, pp. XXX + 250, € 18,00) allestita in forma elegante da Susanna Spero e arricchita di una meticolosa introduzione di Marco Pascarelli. Asseriva Michel Leiris: «l’arte si contrappone categoricamente alla natura, come per Baudelaire e Wilde, ma, a differenza loro, in Roussel è come se il bello in quanto tale fosse privo di importanza e dell’arte si dovesse prendere in considerazione solo l’invenzione, ossia la parte di pura concezione, totalmente distaccata dalla realtà». Con simili presupposti bisogna ribadire che il lavoro di Roussel si basa principalmente su quel «linguaggio aleatorio e necessario» di cui parlava Foucault, derivato sia dalla rielaborazione di stereotipi grammaticali sia dai suoi interessi scientifici o pseudo-scientifici (tra i suoi indispensabili riferimenti sono da annoverare le «invenzioni» di Verne e Flammarion) di cui è pervasa la trama altalenante di Locus Solus. L’autore stesso teorizzò, nel saggio Comment j’ai écrit certains de mes livres, composto presumibilmente nel 1931, la particolare tecnica del suo procédé compositivo che prevedeva di scegliere «due parole quasi simili (sul tipo di metagrammi). Per esempio billard e pillard» alle quali venivano aggiunte parole analoghe «ma prese in due sensi differenti» in modo da ottenere «due frasi quasi identiche». Tali frasi dovevano contrassegnare l’incipit e l’explicit di un determinato testo (oltre a Impressions d’Afrique e Locus Solus, Roussel cita anche L’Etoile au front e La Poussière de soleils), passando attraverso una serie di complicati escamotages imperniati sui doppi sensi e in parte contraddicendo ciò che lo scrittore ribadiva: «per me l’immaginazione è tutto».
Se l’aspetto ludico di tale procedimento non poteva non affascinare i surrealisti (nella sua Anthologie de l’humour noir, Breton sosterrà che «Roussel è, con Lautréamont, il più grande ipnotizzatore dell’epoca moderna»), Locus Solus si connota per la grande capacità combinatoria di assemblare i materiali più disparati (linguistici e non) al fine di costruire le macchine inverosimili sperimentate dal dottor Martial Canterel: la signorina, un apparecchio in grado di predire il tempo attraverso un mosaico composto di denti umani; la gabbia di vetro in cui i defunti resuscitano grazie a due magiche sostanze, il vitalium e la resurretina; il cranio di Danton che, mediante una complessa procedura, è in grado di riprodurre le «contorsioni dei muscoli» durante «la sua intensa attività parlamentare». Osserva Pascarelli: «Tutto, in Locus Solus, è descritto con una precisione “lenticolare”, l’inspiegabile è minuziosamente analizzato, gli enigmi – che pure non mancano – sono disciolti in un profluvio di chiarimenti». Gian Carlo Roscioni nel suo saggio L’arbitrio letterario (1985) aveva evidenziato come «una nuova luce sembra investire i due luoghi dove l’arte di Roussel, per lungo e tortuoso che sia il suo itinerario, finisce sempre per approdare: il meraviglioso e il comico. Si tratta di un meraviglioso così antiquato da riuscire spesso comico, e di un comico così lambiccato da suscitare più sorpresa che divertimento».
Il senso di straniamento che il lettore prova di fronte ai topoi di Roussel è lo stesso che gli viene dall’automatismo di derivazione surrealista ma i presupposti teorici sono fondamentalmente divergenti, tanto che Roussel provava una forma di ritrosia a essere accostato fra i seguaci di Breton. Non c’era alcun intento dissacratorio nelle intenzioni di Roussel né tanto meno il presupposto di indagare, sulla falsariga della scoperta freudiana, il mondo onirico o quello dell’inconscio. Non dipende dalla sua volontà se tali motivi sono presenti nei suoi testi. Il procédé teorizzato da Roussel ha tratti quanto mai differenti rispetto all’écriture automatique, nonostante l’elemento della casualità sia presente in entrambi i metodi. Romanzi, poemi, pièces teatrali (tra cui un adattamento di Locus Solus) si basano sull’equivoco di misurarsi dialetticamente con un mondo scientifico (o parascientifico) a lui precluso, sull’onda dell’opera dei già ricordati Verne e Flammarion. Ma, a differenza dei suoi mentori, non vi è alcuna verosimiglianza nell’excursus narrativo di Roussel, contrassegnato da una congerie inattendibile di macchinazioni e automi che sembra derivare dal romanzo gotico. «Nessuno dei generi e degli strumenti della moderna mitopoiesi sembra estraneo a Roussel, che attinge indifferentemente al romanzo nero e sentimentale, al racconto poliziesco, alla fantascienza, al Grand-Guignol: senza trascurare la forma di tutte più fortunata, il fatto di cronaca registrato nelle pagine dei quotidiani» precisa Roscioni.
In questo contesto si inseriscono, mediante una serie sorprendente di mise en abyme (vedi i capitoli secondo, quarto e quinto), rielaborazioni di saghe universali, come osserva ancora Roscioni, «da una “leggenda armoricana contenuta nel mito di Artù” a un’“avventura di Alessandro Magno narrata da Flavio Arriano”, da un’“affermazione di San Giovanni” sul destino di Ponzio Pilato a un “passo di Erodoto” dove indica l’ubicazione di un tesoro». Il «feticismo degli oggetti» e la stessa scrittura che li designa divengono così, come rilevato nell’introduzione, «una macchina per scrivere: il rebus e i calembours sono meccanismi per mostrare la riproduzione delle cose. La lingua, asciutta e arida, ricorda quella dei brevetti». Tutto risulta vago, arbitrario, artificioso e, al contempo, descritto in maniera minuziosa, capillare, talvolta gratuita rispetto all’economia del racconto, come se la commistione rilevata da Giovanni Macchia tra homo faber e homo ludens non fosse che un pretesto per ratificare l’opera del più lucido tra i pazzi.