Il congresso è finito. Lo scontro nel Pd no. Matteo Renzi ha vinto, ma per gli sconfitti è una battaglia, non la guerra. Lo si era capito ieri, quando Gianni Cuperlo ha rifiutato di far entrare un componente della sua area (scelto però da Renzi) nella nuova segreteria. Il candidato sconfitto nega e smentisce, ma continua a circolare molto largamente la voce secondo cui il rifiuto sia arrivato solo in un secondo tempo, dopo un intervento dei “capi storici”, per non dire del baffuto capo storico numero uno.

Cuperlo ha bissato ieri il suo niet affermando, nell’assemblea con i suoi parlamentari, che non intende assumere la presidenza del partito, offertagli da Renzi. La partita non è chiusa, molti dei suoi preferirebbero una risposta opposta e ancora sperano di fargli cambiare idea nei prossimi due giorni. Massimo D’Alema, invece, assicura di essere ormai fuori gioco: «Non parteciperò a una dialettica legittima che ha ora protagonisti di un’altra generazione. Non ho intenzione di animare correnti».

Sarà per sospettosità innata, sarà perché l’esperienza ha il suo peso e il modus operandi qualcosa vuol dire, ma sono in molti a sospettare che il passo indietro non solo non vada preso sul serio ma indichi anzi l’intenzione di proseguire la guerra, con l’obiettivo di mandare a sbattere il giovane usurpatore il prima possibile, negandogli ogni sostegno e aspettando di vederne passare il cadavere per «riprendersi il partito».

Del resto, non è che il vincitore sia più tenero. Da Ballarò ripete e dettaglia quel che aveva detto a caldo, subito dopo la vittoria: il vecchio gruppo dirigente è fuori. «Con le primarie si è chiuso il ciclo di una generazione. Potranno dare consigli, nient’altro. E non credo proprio che saranno candidati alle europee». Rottamati.

La prima linea di questo conflitto sotto pelle è la legge elettorale, coniugata com’è alla tenuta del governo. Nell’incontro di lunedì sera, Letta ha chiesto al neosegretario di difendere il vincolo di maggioranza: la riforma la si concorda prima con la maggioranza e poi la si sottopone al vaglio delle opposizioni. Una strada che concede ad Alfano enorme potere di condizionamento e mette così al riparo il governo. Renzi ha risposto con un no secco.

Oggi, in parlamento, Letta dovrà per forza accennare all’argomento. Se calcherà i toni esponendosi apertamente a favore del vincolo di maggioranza, Renzi è già pronto a una durissima replica, nella quale chiarirebbe senza diplomazia che la faccenda non è di competenza del governo. Se invece il premier si limiterà a un più inoffensivo «auspicio», tanto Renzi che Alfano sceglieranno di interpretare il passaggio ciascuno a modo proprio, Renzi come un dettaglio, Alfano come un imperativo, e il braccio di ferro verrà rinviato alla commissione Affari costituzionali della camera.

Sarà quello il momento della verità sia per quanto riguarda le regole con cui gli italiani torneranno a votare, al più tardi nella primavera 2015, sia per quanto attiene alla longevità del governo e alle tensioni nel Pd. La strategia di Renzi è secca: andare a vedere il gioco di Alfano, che ha lanciato la proposta del «sindaco d’Italia», in concreto del doppio turno. E’ un’avance che il Pd, dopo averla invocata per lustri, non può rifiutare a scatola chiusa. Ma il nuovo segretario ha già chiarito ai suoi che la riforma elettorale va svincolata da quelle istituzionali e che deve avere la precedenza. Il contrario esatto di quello a cui mira il Nuovo centrodestra.

Il mandato del sindaco-segretario è chiaro: alle prime avvisaglie di gioco al rinvio, non appena ci si trovasse di fronte a una richiesta di allungare i tempi della legge elettorale per anticipare le riforme, si cambia marcia e si torna al mattarellum con chi ci sta: dunque con Berlusconi, Grillo, Vendola. Per il governo sarebbe un passo fatale. Ma su questo punto il nuovo segretario ieri è stato chiarissimo: «Della legge elettorale se ne occupa il parlamento e ad avanzare la proposta deve essere il Pd». Traduzione: il governo se ne tenga fuori. Se terrà, Letta sappia che «deve nel giro di un anno fare le cose che ci siamo detti di fare». E se invece la riforma elettorale dovesse provocarne il crollo, se ne faccia una ragione.