Dopo il fortunato Il Maledetto United, David Peace si cimenta di nuovo con il tema calcistico, narrando le gesta di una delle icone del football inglese degli anni Sessanta e Settanta: Bill Shankly. L’allenatore che ha raccolto il Liverpool dai bassifondi della Seconda Divisione e lo ha trasformato in una squadra vincente. L’allenatore adorato, venerato ancor oggi come una divinità dai supporter dei Reds, e che a sua volta riteneva la Kop, la gradinata cuore del tifo dei Reds, un luogo sacro. Ma soprattutto l’allenatore che più di ogni altro aveva cercato di applicare il socialismo al football. “Nessuno è più importante del team, non esistono prime donne e solo aiutandosi tra di loro i giocatori possono raggiungere i risultati sperati”. La base della filosofia calcistica di Shankly viene citata spesso nelle oltre 700 pagine del libro, per oltre la metà incentrato sulle 15 stagioni passate dallo scozzese ad Anfield Road. Proprio questa prima parte, però, è la meno convincente di Read or Dead. Quasi ossessivo il resoconto degli infiniti match giocati dai ragazzi in rosso, tra elenco dei marcatori, risultati e presenze allo stadio, inframezzati dalla descrizione, anche quella tremendamente ripetitiva, della routine quotidiana di Shankly. L’idea di rendere, così facendo, la meticolosità del personaggio poteva essere anche apprezzabile, ma la nostra impressione è che Peace si sia fatto prendere troppo la mano.

Certo, non mancano gli aneddoti, come quando a Leeds Shankly fece salire sul pullman della squadra un gruppo di tifosi in trasferta oppure quando tenne il discorso alla squadra prima di una celebre sfida con il Manchester United usando gli omini del Subbuteo per indicare la “santa trinità” Law-Best-Charlton. Qua e là compaiono le frasi taglienti che tanto hanno contribuito a creare il personaggio, ma la netta impressione è che Peace voglia soprattutto mettere più in evidenza la bontà d’animo di Shankly. “Dopo tanti personaggi negativi”, ha ammesso lo stesso autore, “volevo raccontare la storia di una brava persona”.

Per questo è l’ultimo segmento di Red or Dead ad apparire più riuscito. Splendido, a tratti commovente è il suo duetto in radio con l’ex primo ministro laburista Harold Wilson, a parlare di football e politica, di quel socialista ante-litteram che rispondeva al nome del sommo poeta Robert Burns e di quando anche Shankly, a soli 14 anni, si immergeva nelle viscere di Glenbuck per guadagnare la paga giornaliera che spettava ai minatori.

Ma gli anni della pensione per il grande Bill sono anche pieni di delusioni e rimpianti. Rimpianti per non aver dedicato più tempo alla famiglia, delusioni per come lo aveva trattato (male) dopo il ritiro il Liverpool e per la brutta china che stava prendendo il suo amato football, soprattutto perché c’erano troppi soldi in giro. Stava iniziando il distacco, lo scollamento tra i calciatori, figli della working class, e la loro stessa fascia sociale di provenienza, ora, in piena epoca di corporate football divenuto irreversibile. La sua consolazione erano i tifosi. Rispondeva sempre alle lettere, ai messaggi che gli scrivevano. Non rinunciava mai a scambiare due parole di persona con i supporter dei Reds. Che lo scorso settembre, il mese in cui Shankly, se fosse stato ancora vivo, avrebbe compiuto 100 anni, lo hanno ricordato con una splendida coreografia che ha coinvolto tutta la Kop e con uno striscione che dice tutto: “ha reso felice la sua gente”.