Da qualche anno, a partire dalla gestione di Alberto Barbera, il festival propone una pre-apertura che onori il titolo della manifestazione (Mostra internazionale d’arte cinematografica) con un film muto restaurato con accompagnamento musicale dal vivo- un’esperienza che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita. Si tratta dell’anticipazione della sezione “Venezia Classici” dedicata a una selezione di film restaurati, che premia il miglior restauro e il miglior documentario sul cinema, a giudizio di una giuria di studenti di cinema guidata dal regista Giuseppe Piccioni. Tra i film proposti quest’anno lo spettacolare Novecento di Bernardo Bertolucci (1976) e il classico di Michelangelo Antonioni  Deserto rosso (1964), in cui il restauro del colore gioca un ruolo chiave, tra sventolii di bandiere rosse nel primo e i grigi nebbiosi del petrolchimico di Ravenna e il rosa magico della spiaggia di Budelli in Antonioni; due capolavori in costume (in bianco e nero) di Kenji Mizoguchi Gli amanti crocifissi L’intendente Sansho, entrambi del 1954, che puntano il dito contro l’ipocrisia e la durezza della condizione femminile nel Giappone (del passato?), un melodramma poco noto di Raoul Walsh, Femmina ribelle (The Revolt of Mamie Stover, 1956) con Jane Russell nel ruolo di una prostituta che cerca invano di redimersi per l’influenza di uno scrittore interpretato dal coriaceo Richard Egan dai tratti scolpiti con l’accetta, L’occhio del maligno di Claude Chabrol (1962) un giallo geometricamente costruito intorno a un triangolo amoroso, L’asso di picche, il primo film di Miloš Forman, girato in Cecoslovacchia nel 1963,  Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977) reso attuale dalle recenti notizie che confermano la presenza di alieni abitanti di vicine galassie ansiosi di conoscerci, il filippino Batch ’81 di Mike De Leon (1982) che mette in scena in “nonnismo” delle fraternities universitarie, il cult comico-sentimentale- action Tutto in una notte di John Landis (1985) con Jeff Goldblum, Michelle Pfeiffer e David Bowie, e alcuni camei dei registi piu’ diversi, da Paul Mazursky a Donal Siegel e persino Roger Vadim, nel ruolo di Monsieur Melville (!). E ancora il melodramma neorealista Non c’e’ pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis (1950), Il sapore del riso al te verde di Yasujro Ozu (1952) sulla crisi matrimoniale di una coppia male assortita, Due o tre cose so di lei di Jean-Luc Godard (1967) in cui “lei” sta sia per l’affascinante Marina Vlady, pedinata per 24 ore, che per Parigi, una citta’ reificata dal consumismo, e il surrealista- bunueliano La donna scimmia di Marco Ferreri (1964) con Ugo Tognazzi e una Annie Girardot coperta di peli proprio come una scimmia. La sezione include inoltre una serie di documentari dedicati al cinema che negli anni passati hanno rappresentato alcuni dei momenti migliori del festival, quindi aspettative alte. Chi malauguratamente non ama scoprire un cinema che si sta rinnovando, i registi dai nomi finora ignoti e per di piu’ italiani nel programma di quest’anno, ha nei “Classici” un’alternativa sicura. A cominciare dal film prescelto per la pre-apertura, dato a lungo per perduto, Rosita di Ernst Lubitsch (1923) con Mary Pickford.

Era stata la giovane star Mary Pickford a volere Lubitsch alla regia, facendolo arrivare dalla Germania dopo che aveva diretto con successo una serie di film in costume che aggiungevano un tocco malizioso alle vicende, guardando re e personaggi storici dal buco della serratura (a volte letteralmente), ovvero raccontandone vizi e virtu’ nel privato: un modo di fare film spettacolari ma con un guizzo di ironia che non ne minava l’epica ma li sfrondava di retorica. Mary voleva invece la grandeur europea del film storico e insisteva per interpretare una tragedia elisabettiana, al che Lubitsch rispose proponendole il ruolo di Margherita in Faust, ma l’onnipresente madre di Mary pose il veto; e il compromesso fu Rosita.

Rosita e’ tratto dal popolare romanzo storico Don Cesare di Bazan, ambientato in una Spagna di un passato imprecisato, in cui un re libertino (Holbrook Blinn)  e’ attratto da una cantante di strada (Mary Pickford), che a sua volta è innamorata di Don Diego, un nobile decaduto (George Walsh, avvenente fratello del regista Raoul Walsh, che doveva essere il protagonista del primo Ben Hur) che la salva dalle guardie quando si esibisce in una canzone in cui prende in giro il sovrano. Entrambi finiscono imprigionati ma, mentre Don Diego rischia la pena di morte, il re cerca di sedurre la ragazza offrendole ricchezze e abiti suntuosi; alla fine pero’ l’amore trionfa, per opera di una regina gelosa quanto astuta. Una trama perfetta per Lubitsch, ma un ruolo forse poco adatto alla Pickford che aveva tenuto a lungo segreto il suo amore per Douglas Fairbanks per non intaccare la sua immagine vittoriana di “fidanzatina d’America.”

La premiere fu un grande successo sia di critica che di pubblico, eppure, nonostante le dichiarazioni ufficiali di quanto fosse stata bella l’esperienza, i due non lavorarono piu’ insieme e poco dopo l’attrice decise persino di far sparire il film. Negli anni Sessanta per fortuna gli archivi sovietici ne scoprirono una copia e la restituirono al Museum of Modern Art, che lo mise in sicurezza, ma non pote’ procedere a un vero restauro perche’ mancavano le didascalie. Ritrovata alla Academy Library la sceneggiatura originale e’ stato possibile finalmente ricomporre il film nella sua forma originaria. Restaurato in digitale 4K dal MOMA (con la Film Foundation) per rendere giustizia alla magica fotografia di Charles Rosher, che in questo film sperimento’ luci e composizioni che potessero offrire effetti di grande profondita’ di campo, e alle scenografie stilizzate di Sven Gade, si avvale dell’accompagnamento della Mitteleuropa orchestra del Friuli Venezia Giulia diretta da Gillian Anderson, che ha filologicamente ricostruito la partitura originale. Il film contiene inoltre una piccola sorpresa per il pubblico italiano: la presenza nel cast di un attore napoletano, l’aristocratico Mario Caracciolo, che aveva assunto a Hollywood il nome di Mario Carillo, e che interpreta in Rosita il ruolo non cosi’ marginale (nell’estetica lubitschiana) del maggiordomo.