Nel 1921, Hans Rosenkranz, nativo di Königsberg in Prussia orientale, ha sedici anni ed è un enfant prodige. Raffinatissimo per sensibilità, ha lo sguardo acuto sulla questione ebraica, divisa in Germania tra la felice evidenza di un’integrazione riuscita e il ciclico risorgere di un antisemitismo mai sopito. Rivolge la speranza ai cieli orientali della Palestina, promessi dal sogno sionista, ha una vocazione letteraria in germe e molte aspirazioni nel cassetto. Scrive una lettera a Stefan Zweig, chiedendo consiglio per diventare scrittore e accludendo alcune precoci poesie: lo spessore della riflessione, la sincerità degli intenti, l’essenzialità di un discorso che va dritto alla radice delle cose colpiscono Zweig, già allora scrittore affermato, noto mediatore culturale, attivissimo agente per molti editori. Tra le righe di Rosenkranz vede la chiara testimonianza di una gioventù ebraica posta di fronte a problemi tragici e urgenti, ma insieme lucida e determinata. E risponde con generosità, spronando il ragazzo a insistere sui nuclei del proprio pensiero, perché proceda in profondità e in altezza, certo che i risultati non tarderanno ad arrivare. Nelle poesie vede una prevalenza dell’elemento intellettuale su quello sensibile ma si dice sicuro che l’esperienza del mondo saprà far maturare quanto è ancora acerbo.

Ha inizio così una corrispondenza che dura dodici anni, attraversando momenti cruciali e decisivi per la storia europea, fino a interrompersi bruscamente con la nomina di Hitler a cancelliere. Lo scambio rimane a lungo inedito, conservato in un caveau a sud di Tel Aviv, finché, cinque anni fa, Hannah Jacobson, figliastra di Rosenkranz, dona alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme ventiquattro lettere e sei cartoline di Zweig al padre; da allora, le lettere a Rosenkranz sono pubblicate in formato digitale, corredate da un commento. Ne ha appena redatto una edizione italiana Giuntina, Stefan Zweig, Lettere a Hans Rosenkranz Briefe an Hans Rosenkranz (a cura di Susan Baumert e Francesco Ferrari, con l’originale tedesco che segue l’ottima traduzione dei testi, una brillante introduzione che staglia la figura dei due corrispondenti, e l’aggiunta di due inediti ulteriori, una lettera di Zweig al padre di Rosenkranz, e una di Rosenkranz a Zweig, pp. 111, € 13,30).

Un destino cui si deve fedeltà
Le lettere di Zweig implicano un viaggio: seguirne la progressione significa percorrere gli spazi della nuova Austria post-imperiale, della Germania di Weimar, dell’Europa tra una guerra e l’altra, muovendosi sul crinale sottile tra la massima fioritura e la caduta. Emerge, dai testi, l’immagine bifronte di uno spazio culturale vivace, teso, creativo, dove però si intravvedono già, in controluce al presente, i segni della disgregazione, dentro uno di quei ‘laboratori della fine del mondo’ cui la cultura austro-tedesca è da sempre avvezza.

Sono anni in cui l’ebraismo di Germania e Austria è sempre più consapevole di sé, sicuro del proprio retaggio, fonte di contributi decisivi nella letteratura, nella musica, nelle arti figurative, nella scienza: al crocevia tra una propria, secolare tradizione e la partecipazione, altrettanto solida e duratura, alla cultura tedesca, dentro il perimetro di una modernità ebraica divisa tra universalismo e particolarismo.

È lo stesso Zweig ad ammetterlo, nella lettera che inaugura la corrispondenza: «da un punto di vista puramente storico, sono certo che l’ebraismo dispieghi adesso, culturalmente, una forza produttiva, una fioritura, come non accadeva da secoli». Un riconoscimento che, però, si articola in parallelo alla consapevolezza di una certa fragilità: «Può darsi che questo sia il divampare della fiamma prima del tramonto, può darsi che questo sia solo un guizzo nella tempesta dell’odio del mondo. Cionondimeno, l’ebraismo conosce adesso un momento vitale, con tutti i suoi rischi».

Già dalle prime righe che indirizza da Salisburgo al giovane Rosenkranz, Zweig coglie l’occasione per riaffermare la sua posizione, rispetto alla questione ebraica e allo spinoso problema delle nazionalità, dibattuto in quegli anni più che mai. Essere ebrei è un destino e occorre rimanere dentro questa sorte, per quanto irta di contraddizioni e problematica: a nulla valgono la ricerca di una via d’uscita, le impacciate professioni di dimenticanza o, peggio, di odio di sé; ancora meno utile, d’altro canto, l’espressione di orgoglio nazionale per i numerosi primati che l’ebraismo può vantare in Europa.

Pacifista, europeista, umanista nel senso più largo, cosmopolita per vocazione, Zweig non manca di esprimere al ragazzo Rosenkranz la sua contrarietà al sionismo e, più in generale, a ogni orientamento nazionalista. Convinto sostenitore di un ebraismo policentrico e diffuso, Zweig si pronuncia in difesa appassionata dell’esistenza diasporica. La forza dell’ebraismo, la sua tenace sopravvivenza nei secoli dipendono, Zweig ne è convinto, da un’intima vocazione universale e cosmopolita, da un’unità di spirito più che territoriale. L’ebraismo è essenza spirituale e sovranazionale, non organizzazione politico-burocratica. La sua missione è la diffusione dello spirito tra le nazioni. Del sionismo, Zweig fa salva solo la forza utopica e visionaria del pensiero di Theodor Herzl, non la sua realizzazione concreta («Quanto grande era l’idea, quanto era pura, finché era ancora del tutto un sogno, non mescolata con la politica e la sociologia?»).

A Rosenkranz, che sente l’attrazione della via palestinese, Zweig consiglia invece di viaggiare, di imparare le lingue, di aprirsi al contatto con le altre culture, di reagire con l’espansione del pensiero e la crescita intellettuale alle strozzature di un nazionalismo che, con preoccupazione per i possibili esiti, vede crescere ovunque come una marea: «Chissà, forse la Germania e l’Europa diventeranno così cupe e lo spirito libero non potrà più respirarvi. Pensate al mondo, quanto è grande! Ho visto l’India, la Cina, l’Africa, Cuba, il Canada, e so che ho vissuto».

Una promessa suicida
Nei confronti del giovane, Zweig è mentore e guida: prodigo di consigli, ne segue con sguardo benevolo la crescita, l’irruente intraprendenza, l’evoluzione della scrittura letteraria e saggistica, senza risparmiare ammonimenti e critiche, nette ma mai distruttive, alle sue spericolate avventure economiche, non di rado fallimentari. Tra una riga e l’altra delle lettere, per allusioni o menzioni esplicite, si affacciano nomi che, soli, bastano a evocare uno scenario culturalmente apicale, forse mai più raggiunto: oltre a Herzl, Romain Rolland, Arthur Schnitzler, Anton Kippenberg, Emile Verhaeren, Sigmund Freud. Fino al 1933, anno di interruzioni e distacchi. L’ultima lettera è del 9 gennaio e a fine mese le sorti sono già segnate. In Germania, le opere di Zweig vanno al rogo e, l’anno seguente, comincia l’esilio londinese, cui fa seguito il trasferimento in Brasile, luogo di accoglienza fino al suicidio nel 1942.

Il futuro di Rosenkranz non è molto diverso: in Palestina già dal 1933, combatte durante il secondo conflitto, scrive articoli in inglese per testate ebraiche, si risposa, nel 1956 si toglie la vita. Poco altro si sa del giovane uomo che così tanto aveva affascinato Zweig: sono scarsi i dettagli biografici, meno ancora le realizzazioni letterarie. Rosenkranz rimane un germoglio, una promessa, una strada iniziata. Forse un’ombra, quasi un ologramma, ma le lettere di Zweig ne profilano la figura fino a farne cifra e valore assoluto. Nelle sue parole di guida, rimane un’idea di vita, che non ha mai perso urgenza e che cerca altri destinatari: «Il pensiero più temibile per me», scrive Zweig a dicembre del 1921, «sarebbe stato quello di non aver respirato il mondo. Un uomo come voi deve ampliare i propri orizzonti, per dare il giusto nutrimento allo spirito. Il fatto stesso di volerlo è già il miracolo».