Gli undici avversari avevano un nome beneaugurante. Dopo la notte di Paravati, con il buio del razzismo e della discriminazione, affrontare i ragazzi della Nuova Calimera era il presagio che il pomeriggio di una domenica di fine marzo allo stadio Rocco Gambardella di San Ferdinando sarebbe stato diverso. Il risultato sul campo non contava oggi sotto il sole caldo e accecante della Piana di Gioia Tauro. L’importante era esserci, partecipare, dire un secco no al becerume degli stolti. Koa Bosco è anche questo. Una squadra di calcio ma anche un progetto di società. Una risposta ai fascioleghismi che iniziano a seminare anche a queste latitudini, dove meno te lo aspetteresti.

Un progetto fortemente voluto da don Roberto Meduri, prete coraggioso che sente il peso della responsabilità: «Dopo questa settimana così tribolata e frastornata, con le luci della ribalta che hanno messo in risalto il progetto ma anche le difficoltà, mi sento di lanciare un appello a tutti quelli che volessero aiutarci ad entrare nell’equipe dirigenziale con qualsiasi mansione o collaborazione. Venite e conosceteci affinché questo progetto non finisca qui». Khadim, Sar, Cheikh e Mbaye e tutti gli altri sono i cavalieri dell’altare, the Knights of the altar, l’acronimo di Koa tratto dal nome di un gruppo di gospel composto anch’esso composto da migranti e che, come la squadra, fa parte di Uniti contro le frontiere, progetto umanitario di formazione e alfabetizzazione. C’era questo desiderio nella mente di don Meduri, parroco 37enne nella chiesetta di Sant’Antonio, nella frazione Bosco di Rosarno, quando ebbe l’idea della squadra e decise di raccogliere i fondi per metterla in piedi: «Non è stato facile, ma io ci ho creduto fin dall’inizio perché gli aiuti come cibo o vestiti sono fine a se stessi, per quanto utili, mentre questo progetto di inclusione avrebbe fatto uscire fuori questi giovani, avvicinandoli alla società e aiutandoli a sentirsi cittadini».

I calciatori lavorano di giorno negli agrumeti come raccoglitori e si allenano al calar della sera. Vengono dal Senegal, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio e dal Burkina Faso, e quest’avventura è una possibilità, una speranza che un giorno potrebbe portarli a lasciare gli agrumeti per trovare un lavoro vero. Il riscatto fiorisce su un manto erboso. Ed è anzitutto un calcio al razzismo. Alle umiliazioni quotidiane che cinque anni fa, a pochi chilometri dallo stadio, scatenarono la rivolta dei migranti di Rosarno.

Una sommossa che fece il giro del mondo. Il Koa Bosco è stata dunque l’occasione per un’affermazione sociale. «Anche se tra di loro c’era all’inizio scetticismo misto a paura- continua don Meduri- «perché l’idea di esporsi troppo li faceva sentire vulnerabili. Oggi sono contenti, e lo sono anch’io con loro. In parte si sono ripresi la loro dignità e si sentono orgogliosi quando la gente li saluta per strada».

Il pallone non è più il passatempo che riempiva le giornate in cui nella campagna di Rosarno per i migranti non c’era lavoro. Oggi il pallone vuol dire rinascere e sconfiggere l’apartheid. Ma non sempre è così. A Paravati dieci giorni fa il vento del disprezzo e dell’odio razziale ha cominciato a soffiare forte. Al 30’ del secondo tempo è scoppiato un parapiglia tra i giocatori del Koa e i locali della Vigor. Partita sospesa e la squadra ospite scortata dai carabinieri fino al pulmino inseguita dai tifosi locali al grido: «tornate al vostro paese», «zingari», «africani di merda», «10,100,1000 barche affondate». Il motivo della sospensione era presto detto: «Istigazione razziale» commentava sconsolato Domenico Bagalà, il team menager del Koa. «Ci chiamavano ‘neri di merda, africani andate a raccogliere le arance’. Devono capire che il calcio non conosce colore.

Chi è più bravo deve vincere» ripete oggi il capitano Mbaye. Ecco perché gli spalti del piccolo stadio in terra di San Ferdinando oggi sono gremiti in ogni ordine di posto. Tanti africani sulle gradinate del Gambardella ma anche tanta gente del posto. Ci sono gli antirazzisti di Sos Rosarno, i nuovi agricoltori di Equo Sud, la cooperativa per una produzione agrumicola equa e solidale. Ci sono gli ambientalisti che si battono contro il rigassificatore, gli attivisti dei centri sociali di Reggio.

«Il Koa Bosco è un esempio di integrazione che dovrebbe fare scuola in tutta Italia. Le persone che vengono nel nostro territorio, per lavorarci o anche solo per attraversarlo, sono portatrici di cultura e umanità. Se si dà loro la possibilità di esprimerle, arricchiranno una terra sempre più povera di abitanti e di gioventù come la Calabria» ci dice Arturo Lavorato di Sos Rosarno.

«Approfittiamo per esprimere la solidarietà ai migranti che nella nostra regione vengono ospitati in base alle norme del diritto internazionale e non in base alla carità dello stato, che anzi spesso li lascia morire in mare. Ciò che le istituzioni dovrebbero perseguire sono piuttosto le speculazioni che attorno a questo diritto costruiscono faccendieri spregiudicati che si sono buttati nel business dell’accoglienza. Noi costruiamo una Calabria nuova e più giusta e per questo siamo oggi come ieri a tifare Koa e i suoi calciatori».

I 22 in campo sono scesi in campo afferrando uno striscione. «Siamo qui per giocare in pace!!!». Ed è stata una festa di pace e aggregazione multietnica. Agonismo, corsa, ma soprattutto rispetto. Il Koa, allenato da mister Mimmo Mammolit, ha pareggiato ed è sempre in testa al campionato di Terza categoria calabrese. Ma oggi hanno vinto soprattutto quelli che c’erano. Ha vinto la fratellanza e ha vinto la libertà.