Sono trascorsi quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione di Realism di Linda Nochlin, e rileggere oggi quel testo capitale provoca una serie di cortocircuiti tra l’andamento serrato del saggio, la riscrittura della storia dell’arte del XIX secolo intercorsa da allora, e il ruolo primario svolto dall’autrice nella elaborazione di una storia femminista dell’arte. Tradotto da Einaudi alla fine degli anni settanta con il titolo Il realismo nella pittura europea del XIX secolo, il volume era diventato subito un classico, come del resto Mannerism di John Shearman e Neoclassicism di Hugh Honour che lo avevano preceduto nella collana «Style and Civilisation» della Penguin Books: una collezione di testi di alta divulgazione dedicati a momenti e periodi della storia dell’arte dalla collocazione ancora instabile nel panorama storiografico, scritti senza note ma sostenuti da un’ampia e aggiornata bibliografia, accompagnati da una corposa selezione di immagini in bianco e nero.
La pubblicazione di Realism sanciva inoltre il riconoscimento dell’autrice in quanto studiosa di fama internazionale di una vicenda artistica rimasta in ombra, soprattutto in ambito anglosassone, rispetto alla grande fortuna modernista della pittura astratta nel XX secolo. Come ha raccontato Robert Rosenblum ricordando il periodo subito dopo la laurea e la definizione dei rispettivi temi di dottorato, Nochlin aveva scelto «il mondo totalmente materiale e crudo di Courbet, un artista terragno, la cui volgarità popolare era spesso considerata, all’epoca, oltre i limiti di quel mondo di raffinatezza e di connoisseurship tradizionalmente associato al buon gusto storico-artistico». Courbet aveva permesso a una giovane studiosa appassionata di tenere insieme arte e politica nella ricostruzione della vicenda dell’artista che più di tutti aveva incarnato il ruolo del rivoluzionario, e aveva al tempo stesso fornito il punto di partenza per una rilettura ad ampio raggio della pittura europea della seconda metà del XIX secolo. Ancora oggi è sufficiente leggere l’indice di Realism e scorrerne le immagini per cogliere la maestria con la quale i tre temi principali (la raffigurazione della morte, l’esigenza della contemporaneità, l’eroismo della vita moderna, preceduti da un corposo tentativo di definizione del realismo) sono svolti secondo un piano capace di tenere insieme una articolazione per nodi problematici e lo svolgimento degli eventi lungo l’asse cronologico.
Tuttavia, confrontarsi oggi con il saggio di Nochlin significa anche misurare la distanza e i profondi sommovimenti accaduti nella storia dell’arte, che hanno modificato radicalmente la storia e la geografia artistica del XIX secolo. Decenni di studî sulla pittura accademica, e più in generale la rottura del paradigma modernista, fanno apparire ormai discutibile una ricostruzione così magnificamente serrata, mentre le ricerche sulla storia della fotografia hanno reso alcune pagine francamente obsolete.
Ma l’aspetto che più risalta ora è la totale assenza di donne nel pur vasto elenco di pittori citati nel libro: l’unica artista menzionata è Mary Cassatt, ma soltanto come soggetto di un ritratto di Degas, dunque come modella illustre legata all’artista da un rapporto di amicizia. L’assenza appare folgorante se si guardano le date: l’anno della prima edizione di Realism è il 1971, lo stesso in cui Nochlin pubblica uno degli articoli più citati della storia dell’arte degli ultimi decenni, Why Have There Been No Great Women Artists?. Uscito sulla rivista «Art News» con un ampio corredo di immagini e nel contesto di un dibattito già avviato con le artiste attive soprattutto a New York, e subito ripubblicato in un volume dal titolo eloquente, Woman in Sexist Society (a cura di V. Gornick e B.K. Moran, Basic Books, New York 1971), l’articolo sarebbe diventato il punto di partenza per ripensare l’assenza delle donne dalla storia dell’arte, e avrebbe conosciuto una straordinaria fortuna internazionale (anche in Italia: a una prima traduzione sulla rivista femminista «effe» avrebbe fatto seguito nel 1977 la pubblicazione all’interno del volume La donna in una società sessista; ora si legge nella nuova traduzione di J. Perna e con una preziosa introduzione di M. A. Trasforini: Perché non ci sono state grandi artiste?, Castelvecchi, 2014).
Ricapitolando, nello stesso anno in cui, con la pubblicazione di Realism entra nel novero ristretto degli studiosi di fama internazionale, Nochlin rovescia il tavolo con un articolo che pone una serie di interrogativi fino a quel momento inediti e che ragiona sulle condizioni sociali della produzione e del riconoscimento dell’arte. Why Have There Been No Great Women Artists? è un testo fondamentale, certo invecchiato in alcuni passaggi troppo immersi in polemiche del tempo, ma per molti versi ancora necessario come introduzione a una storia dell’arte consapevole delle differenze di genere e del loro carattere politico, perché mette in discussione il concetto di «grande artista»; scarta con decisione l’ipotesi di una lettura essenzialista, desiderosa di individuare delle caratteristiche proprie dell’arte delle donne; sposta i termini della questione sui fattori sociali che incidono sull’educazione, sull’incoraggiamento e sul riconoscimento delle artiste; ragiona sulle condizioni che hanno invece favorito la formazione di figure professionali così diverse come Käthe Kollwitz o Barbara Hepworth. Nochlin attacca insomma la storia dell’arte rivendicando la possibilità di un modo diverso di fare storia, e lo fa intervenendo in un magazine di arte contemporanea, dialogando con le artiste del suo tempo (Louise Nevelson, Eleanor Antin, Elaine de Kooning, etc.). Perché dunque dedicare l’ultimo paragrafo del saggio a Rosa Bonheur? Pittrice di grande successo alla metà del XIX secolo, in piena stagione realista, Bonheur poteva rappresentare un caso tipico di magistrale costruzione di una carriera all’interno dei limiti concessi a una donna, e al tempo stesso di facile oblio, visto che i suoi quadri giacevano ormai mestamente in gran copia nei depositi dei musei europei e americani. Ma perché ricordarla in chiusura di un articolo politico e polemico come Why Have There Been No Great Women Artists?.
Appare legittimo il sospetto che Bonheur fosse rimasta fuori dalla rassegna Penguin sul realismo, forse per rifiuto da parte della casa editrice, e che Nochlin avesse voluto restituire a quell’artista fiera, ambiziosa, anticonformista, il ruolo che le spettava. Fedele al carattere militante dell’articolo, Nochlin cita una sola opera, La fiera equina oggi al Metropolitan Museum di New York: un quadro enorme, che aveva riscosso grande successo al Salon parigino del 1853 e suscitato riprovazione al momento dell’acquisto da parte di un mercante inglese e del conseguente trasferimento oltre Manica. Ma per una volta l’interesse non si concentra sul dipinto, quanto piuttosto sulla sua autrice, sulla sua caparbietà e le sue contraddizioni: Nochlin procede interrogando e problematizzando le scelte di vita di un’artista che avrebbe a pieno titolo dovuto figurare nella storia del realismo e ne era stata esclusa, come del resto molte altre, a cominciare da Morisot e Cassatt.
Ci sarebbero voluti anni perché quel primo gesto provocatorio, insofferente, antiaccademico, portasse i suoi frutti nella rilettura del XIX secolo: non si trattava infatti soltanto di restituire le donne alla storia, ma di cambiare lo sguardo della storia dell’arte, tornando anche sulle opere degli artisti per interrogarle da un punto di vista consapevole del proprio posto nel mondo, senza mai perdere di vista la loro materialità di oggetti e senza abbandonare quel procedere empirico e quel gusto del paradosso messi a punto nel racconto organico di Realism.