Luca Ronconi, che si è spento a Milano sabato scorso a 82 anni, di molti primati che hanno segnato la sua densa storia artistica, ne vanta uno anche rispetto al nostro giornale: quello di aver dato il titolo alla prima pagina, caso unico nella nostra storia, con la cronaca di uno spettacolo che aveva debuttato la sera prima all’Argentina. «Pasticciaccio italiano» gridava infatti il manifesto dalla sua copertina il 21 febbraio 1996, riferendo di come Ronconi desse corpo a quel demi monde truffaldino, furbetto e talvolta assassino che Carlo Emilio Gadda aveva per sempre immortalato in via Merulana.Ogni creazione di Luca Ronconi del resto, era portatrice di un pensiero, oltre che uno spettacolo sempre mirabile, a cominciare dal linguaggio scenico su cui prendeva forma. È stato così fin dall’inizio, quando nessuno lo conosceva e fu portato alla sua prima regia da un gruppetto di amici suoi coetanei, quasi tutti banditi allora dalla Rai per motivi di «morale»: a parte Ilaria Occhini, Gian Maria Volontè con Carla Gravina, e Corrado Pani che adulterava con Mina. Fu un Goldoni sfortunato, ma già al secondo titolo (i Lunatici elisabettiani di Middleton e Rowley) fu chiaro che un genio, scomodo e ingombrante, era arrivato, e cominciava a cambiare la lente con cui guardare al teatro. E prima ancora, al come farlo.

Nel giro di un paio d’anni, non solo la parabola della recitazione era cambiata, ma anche disposizione, postura e zone di competenza tra attori e pubblico. Ora è chiaro che sulla scena quell’Orlando furioso, pur così fedele ad Ariosto nella trascrizione di Edoardo Sanguineti, fu intuitivamente per tutti il prender corpo sulla scena del pensiero del ’68: collettivo ma affidato alla responsabilità individuale, agguerrito e libertario, pronto a opporre ad ogni fascinazione un disvelamento salvifico; e tutto in nome di amori combattuti: molto fisico, utopista ed entusiasta, disponibile nei singoli episodi alla totale libertà di scelta per ogni spettatore di seguire la parte che preferiva. Non ci si rese forse conto allora dei suoi significati profondi, in quell’estate del ’69, ma cominciò un divertimento collettivo di passione e ragione, che è stata solo la base fertile su cui Luca Ronconi è andato costruendo lungo mezzo secolo di laboriosità febbrile il suo teatro. E anche il nostro.

Un processo che non è stato lineare, e nemmeno «indolore», stretto tra le critiche (spesso interessate o banali, come quelle legate alla durata dei suoi lavori, riaffiorate cospicuamente anche in questi giorni di lutto) dei suoi detrattori, le ristrettezze spesso strumentali dei costi di produzione, la difficoltà a capire, a una visione superficiale, quanto di importante, e spesso meraviglioso, ci fosse nei suoi spettacoli. Vi si opponeva la discrezione proverbiale dell’artista, che preferiva ogni volta minimizzare piuttosto che contrattaccare, e la effettiva complessità di certi titoli. Come scatole cinesi, i suoi spettacoli sono stati scrigni in grado di sprigionare vapori vitali di intelligenza e sapienza; visioni di futuro che potevano servire anche da analisi impietose del presente; squarci del passato che come fulmini illuminavano le miserie dell’oggi.

Pornografia_Pierobon,Bini©Luigi Laselva2

Quello che Ronconi non ha mai rischiato (se non in rarissime regie fatte contro la sua stessa volontà) sono stati la banalità, la maniera o il birignao di tanto teatro, la formula d’occasione per risolvere una imbarazzante commissione. Lui ha sempre scelto, rischiando in prima persona, i testi da mettere in scena. Estraendoli da cassetti reconditi della memoria giovanile (se non infantile), quando ebbe la fortuna di poter saccheggiare liberamente la ricca biblioteca della madre, nelle giornate interminabili in cui era prigioniero della guerra che rendeva pericolose le strade di Roma. Da allora, oltre che la cultura sterminata, deve essergli venuta una fortissima coscienza civile, che lo ha fatto sempre dichiarare laico e «di sinistra», pur senza formalizzare in facili etichette le sue scelte. Anzi, nel suo lavoro teatrale, la cosa da cui è sempre rifuggito è stato proprio il facile «impegno», parola che può sembrare positiva ma che si è rivelata troppo spesso strumentale e bugiarda nell’operare di tanti. Ma proprio il rifuggire dall’impegno come etichetta e velleità, gli ha permesso rigore e approfondimenti inusitati rispetto al teatro corrente.

Non basta dire che è stato il più grande regista che l’Italia (se non l’Europa) abbia mai avuto. Né che vanti un assoluto primato numerico: sono 125 gli spettacoli teatrali realizzati, e più di 100 quelli lirici. Ma il fatto fondamentale è che, ad ogni occasione, si è assistito a una sorta di «rivelazione» di un testo nelle sue mani, capaci di far emergere da quelle parole significati sommersi, snodi narrativi, visioni e prefigurazioni inquietanti o perfino crudeli, sensazioni e sentimenti inconfessabili nelle conversazioni quotidiane. Insomma un esercizio intensivo per la pigrizia spettatrice, ma capace di ripagare ogni fatica con la «bellezza», l’arguzia, l’intelligenza di quella rappresentazione.

Oggi fa impressione che, proprio al momento della sua dipartita, Ronconi venga raccontato dalle fonti più disparate come un «vecchio amico», un simpatico chiacchierone, un commensale perpetuo di chiunque. Chi lo conosce diffida di quelle millantate frequentazioni, lui così parco nel cibo e schivo di carattere, ai limiti della timidezza, anche in tarda età (dopo molte avventure e birichinate giovanili, che ricordava lui stesso con gusto divertito, compiute magari in compagnia delle amiche cui sarebbe rimasto fedele come Laura Betti, tanto per fare un nome).

In realtà ha potuto sempre contare su solide armate di nemici, per motivi diversi, di rivalità o di gelosia. Non solo degli spettacoli che riusciva a fare, ma di quanto è riuscito a ottenere dagli attori, e dalle forme di lavoro che si è saputo nel tempo inventare, creare, sperimentare e rinnovare. Se i primi clamorosi successi li ottenne alla fine dei ’60 con la gloriosa Cooperativa Tuscolano (dove era il cinemetto che serviva loro da base), per la direzione della Biennale Teatro e Musica elaborò una inusuale formula di Laboratorio veneziano dove nacquero spettacoli in qualche modo destinati a far da «capostipiti», i suoi Orestea e Utopia aristofanesca alla Giudecca, e Einstein on the beach di Bob Wilson e Philip Glass alla Fenice. Un Laboratorio che si strutturò come modello a Prato, in una delle poche progettazioni culturali che la sinistra sia riuscita a varare (pagandone immediatamente dopo spaccature rovinose). Nella città toscana qualche intellettuale fedele (primi Franco Quadri e Gae Aulenti) e nuove e nuovissime generazioni di attori lasciarono il segno di nuove potenzialità del teatro: Marisa Fabbri Baccante totale e solitaria, il debutto assoluto del Calderon pasoliniano, una mirabolante Torre di Hoffmansthal che inaugurò clamorosamente il Fabbricone, prima archeologia industriale rivitalizzata in cultura.

25lehmantrilogy

Ma furono di più gli attacchi e l’ostracismo, con una sorta di esilio all’estero da Vienna a Zurigo. E dopo l’interesse nuovo e inevitabile degli anni ’80 vissuti pericolosamente, arrivarono le stagioni del teatro pubblico, quello che giustamente a Ronconi competeva: prima Torino, poi Roma e infine Milano, dove il Piccolo lo chiamò alla morte di Strehler. Titoli e eventi indimenticabili, dal teatro scavato e rivitalizzato dentro la letteratura (dal Pasticciaccio ai Karamazov alla Lolita sceneggiata da Nabokov stesso) ai grandi classici da Shakespeare a Ibsen, al trionfale e barocco Andreini. Con dei titoli «storici» che hanno scandito il teatro per tutti: Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus nella ex sala presse del Lingotto, contro le guerre del passato e quelle in arrivo (quella del Golfo scoppiò a una delle ultime repliche), gridato con forza da navi treni, funerali imperiali, battaglie sul fronte di trincea, i tavolini del ring di Vienna e le linotype delle edizioni straordinarie.

Altro momento clou, Infinities alla Bovisa, nel deposito costumi della Scala, testo commissionato al fisico Barrow con cinque paradossi sull’infinito. E poi il progetto Domani a Torino, cinque spettacoli da Omero e Shakespeare fino all’economia (targata Giorgio Ruffolo) e alla bioetica. Fino ai recenti Spregelburd da un’Argentina che dà vita ai nostri incubi prossimi venturi, e la fulminante Lehman Trilogy ancora in scena, su nascita fasti e morte del capitalismo.

Una storia lunghissima, che Ronconi, con discrezione e humour, ha percorso testardamente, sempre in compagnia delle sue virtù, quasi ossessioni: lo spazio, sempre reinventato; gli attori, strumento principe; la formazione di nuove generazioni teatrali. Oggi che lui non c’è più, dà un brivido la mancanza di un argine solido e inventivo alla fine della regia. E si affaccia qualche paura di un grande supermarket del teatro limitato e diviso tra intrattenimento e retorica. Invece che, come piaceva a Ronconi, affacciato in maniera perfino crudele, sull’incertezza del domani e il turbamento dell’oggi. Semplicemente complicato, come diceva Thomas Bernhard, ma capace di trasformare la rappresentazione in una emozione superiore a ogni discorso.