Matteo Rovere è uno che va veloce. Veloce come il vento, parafrasando uno dei suoi film – finora il più riuscito – almeno per i tempi italiani: l’esordio con un corto, Lexotan, a 19 anni premiato a Linea d’ombra Salerno Film Festival, il lungo a 26 anni col (provocatorio) Un gioco da ragazze, produttore oltre che regista che vince con Smetto quando voglio, divenuto un «caso» nel cinema italiano. E questa è un po’ anche l’ambizione da regista, tracciare cioè una linea distante dai «modelli» del nostro cinema, commedia ma sempre nera, provincia malata ma con qualche variazione (Un gioco da ragazze), i giovani millenial confusi e senza energia (Gli Sfiorati), gli scontri e gli incontri generazionali (Veloce come il vento) tra le curve della vita e quelle adrenaliniche delle piste da corsa. Tutto familiare, tutto con quell’ambizione sorretta dal talento di sapere dirigere la macchina da presa anche nelle storie più scassate che lo conduce a questo nuovo film in cui raccontando le origini di Roma e del suo Impero fonda (o rifonda) la sua iconografia e la sua narrazione.

«IL PRIMO RE» anche se parlato in latino – anzi in protolatino – non è un peplum, non ha nulla degli intrighi di corte e degli ambienti che riflettevano l’epoca in cui venivano girati. Semmai Rovere guarda al post-apocalittico, a film come Apocalypto di Gibson o Valhalla Rising, a un passato archetipo che fa cortocircuito col contemporaneo.

QUEI MASCHI sporchi, sempre in lotta contro qualche nemico, immersi nel fango e mezzi nudi si muovono in un tempo fuori dal tempo, il tempo del mito che è là nel bosco ove tutto avviene, ove Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi) cercano di fondare la loro città, il luogo in cui troveranno riparo le genti del Tevere scrutando gli auspici, ascoltando gli oracoli, le profezie della veggente, i segni degli dei. Solo uno di loro sarà re, ma chi? Impossibile che sia il fragile Romolo già ferito in battaglia per avere sfidato il fuoco sacro, è chiaro che sarà Remo, fortissimo, invincibile, che sprigiona un’aura da dio e gli dei è pronto a sfidare. Governare però è altra faccenda, e lo scontro che si pone infine sarà anche nel mito quello tra l’istituzione, il rispetto degli dei, della tradizione, delle regole, e il suo tradimento – una scelta di posizione che si rispecchia anche nei metodi di conquista.

ROVERE però non riesce a controllare questa sua scommessa che in sostanza è tradurre in profondità la dimensione spettacolare – e da sé l’elevato budget di otto milioni di euro non basta – e in tensione epica le belle immagini (fotografia di Daniele Ciprì). Potremmo essere in curva prima del derby Roma-Lazio, (forse sarebbe pure meglio) o in living streaming di qualche gioco estremo: il mito roveriano rimane vuoto, fine a sé stesso e al proprio compiacimento.