È durata fino agli anni Cinquanta la prima grande migrazione di bambini della storia che dal Trentino Alto Adige, ma anche da Austria e Svizzera, andavano a lavorare nelle fattorie tedesche dell’Alta Svevia (Baviera). Una storia poco raccontata che Romina Casagrande, laureata in lettere classiche e appassionata di storia, ha messo nero su bianco nel suo romanzo d’esordio dal titolo I bambini di Svevia (Garzanti, euro 18,60).

Casagrande, chi sono i bambini di Svevia?
È difficile definire chi fossero i bambini di Svevia senza tralasciare uno degli aspetti che rendono unico questo episodio della nostra storia. Una parentesi lunga tre secoli e che ha visto protagonisti ragazzini spesso molto piccoli, bambini e bambine anche di cinque o sei anni – raramente ne avevano più di quattordici – in viaggio attraverso le montagne per raggiungere le ricche fattorie dell’Alta Svevia. Provenivano dall’Italia, in particolare dal Trentino Alto Adige, ma anche dalla Svizzera e dall’Austria, Paesi di confine dove i controlli e le leggi in merito a istruzione e lavoro minorile spesso si confondevano, mutavano, lasciando larghe maglie in cui il fenomeno poté prosperare.

Gli storici ne parlano come della prima grande migrazione di bambini. Di fatto erano soli. Partivano il 19 marzo, giorno dedicato a San Giuseppe, e rientravano a novembre, per San Martino, seguendo il calendario contadino che stabiliva non soltanto il ritmo di lavoro nei campi, ma anche le date delle fiere del bestiame in Germania, in cui i bambini venivano venduti. Particolarmente delicata era la condizione delle bambine. Di solito queste ultime svolgevano i lavori di casa mentre i maschietti si occupavano degli animali e dei campi. Per aiutarsi tra di loro, i bambini che già conoscevano alcuni contadini, appena arrivati al mercato, disegnavano una croce con un gessetto sul retro della giacca dei più cattivi. Era un segnale che voleva invitare gli altri a fare attenzione e a evitare quella fattoria.

È una cicatrice di un territorio, ma è anche la memoria di molte famiglie. Una memoria che è rimasta viva nei racconti orali di chi ha fatto ritorno, nelle fotografie in bianco e nero scattate nei mercati, nei vestitini e negli zaini, negli scarponi, che ci sono rimasti. Ma anche nelle numerose pagine di annunci sui giornali dell’epoca in cui si richiede la prestazione di bambine e bambini o negli articoli dei giornali americani che per primi sollevarono proteste ed espressero indignazione per quanto accadeva, ma non trovarono ascolto né seguito.

Com’era il viaggio per arrivare nell’Alta Svevia (Baviera)?
Quello affrontato dai bambini di Svevia era un viaggio molto impegnativo, che tuttora si inerpica per sentieri tortuosi. Venivano raccolti dal prete del paese che restava l’unico adulto durante il viaggio. Sette giorni di cammino nella neve, senza alcun genere di attrezzatura, con la paura di essere travolti dalle valanghe o di scivolare in un canalone. Per sostentarsi chiedevano l’elemosina nei piccoli centri in cui facevano tappa. Una volta arrivati in Svevia e scelti dai contadini nei mercati tedeschi di Ravensburg o Friedrichshafen, venivano portati nelle fattorie dove cominciavano per loro mesi lontani da casa, in balia del padrone che poteva essere comprensivo oppure estremamente duro e punirli. Soprusi fisici e psicologici non erano esclusi.

Quando è iniziata questa migrazione dei bambini e quando c’è stato, dalle sue ricerche, l’ultimo esodo verso l’Alta Svevia?
La prima attestazione ufficiale di un loro passaggio attraverso il confine risale al 19 gennaio 1616. Si tratta di un documento conservato a Innsbruck – una cronaca del sindaco di Bludenz – e che definisce i bambini lavoratori come «Bambini di Svevia». Le ultime attestazioni ufficiali risalgono agli anni Cinquanta del Novecento. Ancora nel 1953 abbiamo testimonianze ufficiali che raccontano di come i ragazzini venissero reclutati in Friuli dai capi dell’Associazione dei contadini svevi. Dovevano corrispondere ad alcune caratteristiche. Si valutava ad esempio la loro corporatura, si faceva aprire loro la bocca e si ispezionavano le mani. Le cronache del 1958, fra le ultime, raccontano la situazione dei contadini della regione del Vogelsberg (Germania) che, vista la grande necessità, ricercavano manodopera infantile.

Quanti bambini hanno dovuto subire questa situazione?
Fare un computo ufficiale è difficile, perché in molti casi i bambini non venivano registrati. Le ricerche parlano di diecimila bambini. Ma in alcuni periodi la migrazione fu tanto pesante da richiedere che venisse istituito a Friburgo un ispettorato scolastico che si occupasse esclusivamente della situazione dei bambini lavoratori.

Com’è venuta a conoscenza di questo dramma?
Ho lavorato per diversi anni come insegnante nella stessa valle altoatesina che ha visto partire centinaia di bambini per varcare il confine. Quasi ogni famiglia conserva ancora i ricordi di chi è partito, di chi ha fatto ritorno oppure non è più tornato, ma la valle tende a non raccontare, a lasciare che la ferita cauterizzi senza soffiarci troppo sopra.

Nel libro, per narrare questa storia, racconta le vicende di Edna: una bambina di Svevia, ma anche un’anziana signora che ha mantenuto una promessa…
Edna è una donna molto anziana, da cui la società non si aspetta più nulla. Una donna che ha attraversato grandi dolori e che ha scelto di ritirarsi dal mondo per nascondersi dietro le siepi di un giardino curato, da cui restare a guardare quanto accade fuori, tenendosi in disparte. Fino a quando arriva la grande opportunità di riprendere i fili della propria vita e fare i conti con il passato. Edna incarna il coraggio che nasce da una presa di coscienza. Nel suo viaggio attraverso le montagne, pur con tutte le inevitabili difficoltà che deve affrontare, Edna vive il peso degli anni come una responsabilità, mai come una resa. E credo che questo sia importante in un mondo in cui sempre più si allunga l’età, ma sempre meno se ne considerano il valore e la ricchezza. Forse conoscere il nostro passato attraverso la memoria dei nostri nonni e dei nostri anziani potrebbe aiutarci a comprendere meglio la realtà così complessa in cui siamo immersi. Salvare questo genere di memoria, così delicato, è importante e ci aiuta a restituire un passato più variegato, più ricco di sentimenti e vite, sfumature. E poi c’è la speranza che, come nel mito di Pandora e nelle fiabe, resta a consolarci promettendoci un riscatto.

Dei bambini di Svevia esiste in Alto Adige qualcosa che li ricordi?
Il romanzo riporta la cartina del viaggio compiuto dai bambini di Svevia che è lo stesso percorso dalla protagonista, Edna. Un piccolo museo a Sluderno (Bolzano), in Val Venosta, raccoglie alcune importanti testimonianze, comprese le pagelle che attestavano – e giustificavano – l’assenza del bambino per tutti i mesi di lavoro nelle fattorie sveve.