Il popolo salvadoregno, quel popolo che Oscar Romero definiva come suo maestro e suo profeta, potrà vederla solo da lontano la canonizzazione del suo pastore. Come ha comunicato ieri papa Francesco, l’arcivescovo di San Salvador sarà infatti proclamato santo in Vaticano, il 14 ottobre, durante il Sinodo sui giovani, insieme a Paolo VI (il papa, perlomeno, che, a differenza di Giovanni Paolo II, lo ha incoraggiato e sostenuto) e ad altre quattro figure della Chiesa.

NON È STATA DUNQUE ACCOLTA dal papa la richiesta dei vescovi salvadoregni, i quali gli avevano proposto, in una lettera, di celebrare la canonizzazione nel loro paese, per consentire ai poveri di prendervi parte. Malgrado fossero stati proprio loro a tenere a distanza il popolo durante la cerimonia di beatificazione a San Salvador nel maggio del 2015, dando la precedenza ai prìncipi della Chiesa e del mondo, tra cui aveva trovato posto persino Roberto D’Aubuisson, figlio dell’omonimo mandante dell’assassinio di Romero.

Un grandioso spettacolo mediatico-religioso di fronte a cui in tanti si erano chiesti – ascoltando le parole pronunciate allora dal card. Angelo Amato, con i suoi inviti all’unità, alla riconciliazione, alla concordia tra ricchi e poveri – se sugli altari fosse finito davvero San Romero d’America, segno di contraddizione e simbolo planetario di una fede impegnata in difesa degli oppressi.

«SE ANCHE la canonizzazione si fosse tenuta nel nostro Paese – ci ha spiegato Luis Van de Velde, animatore delle Comunità di base del dipartimento di San Salvador – si sarebbe comunque trattato di un evento a misura dell’istituzione ecclesiastica, con i politici in prima fila e il popolo a distanza, a fare da osservatore. Tanto vale aver scelto Roma».

Sarà allora il 14 ottobre a Piazza San Pietro che si concluderà in maniera definitiva il lungo, complesso e travagliato processo di canonizzazione, rimasto tanti anni bloccato per ragioni, come si diceva, di «convenienza»: perché un santo non doveva alimentare divisioni, ma essere segno di unità – dunque associare in un unico applauso vittime e carnefici, contadini massacrati e oligarchi in festa alla notizia dell’assassinio – e perché, si diceva ancora, la sinistra, locale e mondiale, aveva ostacolato la causa politicizzando e strumentalizzando la figura di Romero, nel tentativo di sottrarre alla Chiesa il «suo» santo, il «suo» martire, il «suo» vescovo. La stessa Chiesa che, dopo averlo perseguitato quando era in vita, aveva poi tentato di neutralizzarlo dopo la morte. Finché non è arrivato papa Francesco a sbloccare il processo, mettendo fretta ai postulatori delle cause dei santi affinché Romero fosse al più presto elevato agli altari.

VERO È CHE IN MOLTI, estranei alla logica delle canonizzazioni e dei miracoli, continuano a ritenere che di una santificazione dall’alto non ci fosse bisogno, come già indicava tanti anni fa il vescovo Pedro Casaldáliga: «Che non canonizzino mai san Romero d’America perché gli farebbero un’offesa. Egli è santo in un modo del tutto particolare. È già stato canonizzato dal popolo. Non occorre altro».
E se non mancano gli sforzi per cancellarne la memoria sovversiva, nessuno, in realtà, riuscirà a imbrigliare la portata dirompente della sua vita e del suo messaggio: quella di un santo “politicamente scorretto” mai disposto a mettere sullo stesso piano, in nome di una falsa concordia, sfruttatori e sfruttati, carnefici e vittime; a condannare allo stesso modo, in nome di una falsa pace, esercito e guerriglia; a scambiare per persecuzione religiosa quella che altro non era che una persecuzione di classe.