«Non ci sono cartelli a favore di Hillary. Abbiamo guidato dal Canada a qui e davanti alle case e nei giardini leggevamo solo Vota Trump. Qualcosa vorrà pur dire….». Così, meno di una settimana prima delle elezioni del novembre scorso, in uno storico ristorante cinese di New York che gli piaceva molto, George Romero era preoccupato – senza saperlo, con l’intuito di sempre e contro tutti i pronostici, anticipava la catastrofe. Come in un certo senso hanno fatto quasi tutti i suoi film. Avidissimo consumatore di news, George passava ore e ore inchiodato davanti a CNN, di cui filtrava il cicaleccio ripetitivo con la saggezza e la diffidenza nei confronti dei poteri costituiti che lo caratterizzavano e che ne hanno sempre fatto un outsider. La sua non era un’addiction da interesse per l’intrigo politico che, sia made Washington che in Hollywood, ha sempre patito/subito –ma una curiosità e un amore profondi per la follia e le fragilità umane.

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Dal Bronx, dove era nato all’ombra della red scare, a Pittsburgh –la capitale delle acciaierie – a una metropoli di provincia come Toronto, Romero non è mai stato un uomo dell’establishment, geografico e/o dell’arte. Non ne aveva lo stomaco. Non era paura la sua, piuttosto la scelta di funzionare secondo un orizzonte e dei valori diversi, guardando oltre – obsoleto e futuribile come i centauri medioevali del suo magnifico Knightriders. Quando gli dicevo che secondo me era un profeta, lui si metteva a ridere. Ma che cos’è se non una profezia lucidissima Diary of the Dead? Un salto nel passato di produzioni guerrigliere anni sessanta/settanta, come Night, Martin, The Crazies e, soprattutto Knightriders (di cui ha lo spirito, la trama on the road e il pittoricismo della fotografia) e un film in totale sintonia con la generazione di You Tube e lo tsunami d’immagini, immaginario e informazione generato da Internet. Come gli altri titoli del ciclo, Diary è un film epocale. «Ogni volta che faccio un nuovo film di zombie non è perché mi interessi l’evoluzione della loro mitologia ma è perché sento il bisogno di dire qualcosa sul mondo che ci circonda» – diceva spesso George. Se Night era l’America del Vietnam, Dawn quella del boom dei consumi e della pop cultura, Day quella di Ronald Reagan, mentre dietro (anzi dentro) a Land erano Cheney, Rumsfeld e il disastro dei loro anni (Romero metteva i tocchi finali alla sceneggiatura nei giorni che hanno seguito 9/11), la preoccupazione di Diary era tutta rivolta all’esplosione dei media la cui presenza – sempre inaffidabile e inafferrabile – Romero aveva già sottolineato in passato.

Leggendario dal suo primo lavoro – quel folgorante horror in bianco e nero, così miracolosamente in bilico tra Welles e le news, che rimane uno dei maggiori documenti dell’America dei Sixties – Romero è rimasto ciononostante un autore più sconosciuto, originale e inesplorato si pensi. E questo anche perché i suoi film, specialmente quelli non appartenenti al ciclo degli zombie – sono stati difficili da vedere, spesso reperibili in versioni mutilate o rimontate rispetto all’originale.

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«Non sono mai riuscito a fare un film interamente come lo volevo» mi disse George più volte, non lamentandosi quanto chiedendosi come sarebbe stato farlo, forse nemmeno sicurissimo di volerlo. Se Romero ha liberato l’horror Usa dalla tradizione gotica europea reinventandolo completamente e lanciandone il grande revival degli anni ’70, allo stesso tempo la sua formazione e il suo immaginario affondano le loro radici nella cultura, nei miti e nel cinema del Vecchio Mondo. Dietro all’uso del genere nella sua dimensione più esplicita di denuncia politico /sociale, nell’opera di Romero si nasconde una ricerca morale molto più complessa, appassionata e irrisolta.
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Cinema di grande urgenza, inesauribile fantasia e penetrante rapporto con il presente – non solo perché George scriveva persino davanti al televisore- quello di Romero è un cinema che, fin dall’inizio ha faticato ad esistere. Il che rende la sua indelebilità ancora più commovente.

L’incredibile saga dei rifacimenti, delle mutazioni e degli infiniti ritorni di Night of the Living Dead –oggetto mitico la cui esistenza attraversa una buona maggioranza di cinema americano degli ultimi cinquant’anni anni e di cui il regista e i produttori non poterono mai firmare il copyright, è stata una metafora della qualità fantasmatica e inafferrabile del lavoro. Nel dolore immenso per la sua scomparsa, c’è una giustezza poetica: dopo Surving the dead. (un western nascosto dietro a un film di zombie perché se no non gli davano i soldi per farlo) l’ultimo film del ciclo dei Dead che George ci ha lasciato è anche il primo….A quasi mezzo secolo dalla sua realizzazione, l’autunno scorso, George Romero è riuscito a finire The Night of the Living Dead esattamente come lo aveva immaginato nel 1968. Alla proiezione della versione digitalmente scannerizzata dal negativo del film, a cui lui da allora non aveva più avuto accesso, si è presentato con un foglietto di appunti. Due o tre cose, niente di più, che non era riuscito a finire, per mancanza di tempo e/o di soldi. Alla fine della sessione – il film magnifico nei suoi bianchi e neri profondissimi e abbagliante nella sua lucidità – era felice, quasi incredulo. Due settimane fa – mi ha scritto sua moglie Suzanne- George aveva smesso di guardare la CNN.